Il Campo di Internamento di Fraschette: un Microcosmo della tragedia taliana
Il Campo di internamento di Fraschette, situato nella località omonima presso Alatri (Frosinone), rappresenta un capitolo oscuro e spesso dimenticato della storia italiana durante la Seconda guerra mondiale. Non si trattò di un lager nazista, ma di una struttura di internamento istituita dal regime fascista, che, pur nella sua natura differente, riflette le brutalità e le contraddizioni del conflitto e dell’ideologia che lo alimentava. L’analisi della sua storia, dalle origini alla chiusura e alle successive ripercussioni, offre un’opportunità per approfondire la complessa realtà sociale e politica dell’Italia durante quegli anni drammatici.
Operativo dal 1º ottobre 1942 al gennaio 1944, il campo, inizialmente progettato per prigionieri di guerra, divenne rapidamente un luogo di detenzione per civili, principalmente di origine slava e greca, e per altre popolazioni coinvolte direttamente nel conflitto contro l’Italia. Questa improvvisazione, tipica della gestione disorganizzata del regime fascista, si tradusse in una rapida escalation del numero di internati: da 780 anglo-maltesi iniziali, si passò a oltre 5.500 unità, includendo croati, montenegrini, albanesi e persino tripolini italiani. Questa eterogeneità di provenienza accentuò le già precarie condizioni di vita all’interno del campo.
La gestione del campo, affidata alla Direzione generale servizi di guerra, a differenza di altri sottoposti al Ministero dell’Interno, evidenzia la natura strategica, seppur brutalmente pratica, dell’internamento. La responsabilità della “sicurezza” venne invece delegata alla Direzione generale di Pubblica Sicurezza, un dettaglio che sottolinea come l’obiettivo principale non fosse tanto la repressione interna quanto la gestione di una popolazione considerata “nemica” o potenzialmente sovversiva. Questa scelta amministrativa, tuttavia, non mitigò le sofferenze degli internati.
Le condizioni igieniche erano disastrose. Il sovraffollamento, la precarietà delle baracche di legno – umide e fredde – l’assenza di una rete fognaria adeguata e la scarsità di servizi igienici e sanitari, uniti alla mancanza di sussidi economici, crearono un ambiente di sofferenza estrema. La fame, costante compagna degli internati, spinse molti alla fuga, approfittando dell’esile recinzione perimetrale per cercare cibo al di fuori del campo. Solo i maltesi, in quanto “sudditi nemici”, beneficiarono delle garanzie previste dalla Convenzione di Ginevra e degli aiuti britannici, a differenza degli altri gruppi, costretti ad affrontare le difficoltà in condizioni ben più precarie.
Le testimonianze storiche rivelano un quadro complesso, non privo di sfumature. Se da un lato emergono episodi di furti e abusi da parte delle autorità civili e militari, dall’altro alcune testimonianze mettono in luce comportamenti più umani da parte di alcuni poliziotti italiani. Questa ambivalenza rispecchia la frammentata realtà sociale italiana di quel periodo, con la compresenza di brutalità repressiva e atti di solidarietà individuale.
La risposta alla tragedia di Fraschette fu parziale e spesso tardiva. Il Vescovo di Alatri, monsignor Edoardo Facchini, e le suore Giuseppine di Veroli si distinsero per il loro impegno umanitario a sostegno degli internati, così come l’interessamento personale di Papa Pio XII per i circa 400 bambini presenti nel campo. Questi interventi, però, non riuscirono a mitigare pienamente le sofferenze di una popolazione abbandonata a se stessa.
La caduta di Mussolini e l’armistizio dell’8 settembre non migliorarono immediatamente la situazione. Il campo, nel caos e nell’abbandono conseguenti alla fuga delle guardie, rimase in funzione fino a metà gennaio del 1944, quando l’arrivo delle truppe tedesche, indifferenti alla sorte degli internati, segnò la sua definitiva chiusura.
Nel dopoguerra, il campo di Fraschette ebbe un’ulteriore, seppur diversa, funzione. Inizialmente utilizzato dagli Alleati per l’internamento di militari della Repubblica Sociale Italiana, in seguito offrì temporanea accoglienza a profughi italiani provenienti da Istria, Dalmazia e Africa, e successivamente a profughi ungheresi in fuga dai regimi comunisti. Tra questi ultimi, personalità come il calciatore László Kubala e lo sportivo Isidoro Marsan, testimoniano il flusso di esuli che transitò in questo luogo, trasformando la storia di Fraschette in un ulteriore capitolo della complessa vicenda migratoria del secondo dopoguerra.
Oggi, il campo è in stato di abbandono, ma gli sforzi delle autorità locali per il recupero delle strutture testimoniano la crescente consapevolezza dell’importanza di preservare la memoria di questo luogo, simbolo di un passato doloroso e un monito per il futuro. La ricerca storica in corso mira a ricostruire una narrazione completa e accurata del campo, restituendo dignità alle vittime e offrendo un’analisi più approfondita di un capitolo significativo della storia italiana, troppo a lungo relegato nell’ombra.
Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Torin, Einaudi, pp. 198-200,
Angelica Stramazzi, Un paesaggio senza memoria. Il campo Le Fraschette di Alatri, su anagnia.com