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Il Giorno da leoni del partigiano Mannarino

di Alfonso Perrotta

Noi che siamo nati e cresciuti nell’Italia repubblicana possiamo fortunatamente solo immaginare cosa pensasse un giovane di appena vent’anni chiamato alle armi per partecipare ad una guerra che doveva essere, secondo il Duce e chi l’aveva voluta, una passeggiata e che già si prefigurava come una tragedia. Quei momenti, quegli stati d’animo, ce li potrebbe raccontare chi, tra migliaia e migliaia di giovani, è sopravvissuto, ma sono rimasti in pochi.
C’è chi ha lasciato dei ricordi, li ha scritti. Tanti altri hanno preferito mantenerli nell’aneddotica familiare e molte storie sono rimaste sconosciute. Qualcosa per esempio ce l’avrebbe potuto raccontare Giuseppe Mannarino, ma è morto alcuni anni fa.

Giuseppe Mannarino e la Divisione Piacenza

Nato a Paola, falegname, abitante a via Fiumicello, nel vecchio rione della Rocchetta, Mannarino era stato richiamato alle armi nel settembre del ‘42.
Lo avevano assegnato al Battaglione Mortai da 81 della CIII Divisione Piacenza prima in Piemonte e poi in Liguria in territorio dichiarato in stato di guerra. A novembre la Divisione ricevette l’ordine di spostarsi nel Lazio a sud di Roma. Aveva l’incarico di realizzare una seconda linea di contenimento in previsione di uno sbarco nemico.

Bombardamento di Caserta

Caduto il fascismo, il 25 luglio, gli anglo americani, ormai sbarcati in Sicilia, bombardavano i vari paesi calabresi e facevano cadere decine di bombe su Paola a pochi metri dalla casa dove abitava Mannarino prima di partire soldato, e liberavano il Sud risalendo verso nord. La Divisione Piacenza venne spostata allora nella zona di Albano-Genzano-Velletri.
È proprio nei Castelli romani che Giuseppe Mannarino si trova l’8 settembre. Un grappolo di paesi distesi sulle falde dei Colli Albani ricche di vigneti e uliveti, abitati da contadini, operai ed artigiani di antiche tradizioni democratiche e di lotta di classe e che avevano pagato con anni di esilio, confino e carcere la loro opposizione al fascismo.

Italiani e tedeschi, da alleati a nemici in un giorno

Con la caduta di Mussolini si pensava che finalmente la guerra sarebbe finita. I partiti antifascisti incominciarono a ricostituirsi, i vecchi dirigenti imprigionati e confinati tornarono a casa e ripresero l’impegno politico. Anche l’annuncio dell’armistizio dava la speranza della fine delle sofferenze. Ma la fuga vergognosa del Re da Roma e il comportamento dei vertici militari e Badoglio colsero l‘esercito completamente impreparato.
La Divisione Piacenza, schierata con una serie di caposaldi distanti e non collegati tra loro, subì un attacco a sorpresa dei paracadutisti della 2^ Divisione tedesca. I soldati italiani, che fino a quel momento quasi convivevano e condividevano le postazioni con i tedeschi, senza ordini precisi erano disorientati.

Alcuni di loro si trovavano in mezzo ad uno scontro reale per la prima volta. I tedeschi, ex alleati, chiesero la consegna delle armi, alcuni gruppi si opposero militarmente con l’aiuto della popolazione, come nel caso di Villa Doria ad Albano. Già in quel giorno si presentava un’Italia divisa. Italiani che si univano ai soldati italiani per difendersi e difenderli e italiani che collaboravano con le truppe naziste ad occupare il proprio territorio. Il giorno nove la divisione Piacenza era già solo un ricordo.

1943, la disposizione delle truppe

I tedeschi disarmarono e trattennero soldati, ufficiali e sottoufficali. Alcuni ottennero la libertà; ad altri, caricati sui camion, spettò la deportazione nei campi di lavoro.
Molti fuggirono dandosi alla macchia, sparsi in nuclei nelle campagne, nascosti ed assistiti dalle famiglie, rivestiti di abiti borghesi. Chi poteva cercava di tornare a casa. Altri, tra questi Giuseppe Mannarino, entrarono in contatto con gli esponenti dell’antifascismo locale. Severino Spaccatrosi, Salvatore Capogrossi, Aurelio del Gobbo, Lorenzo d‘Agostini, per citarne alcuni. Importante fu il ruolo delle donne tra cui Elena Nardi (Nennella) e Laura Quattrini.

La resistenza nei Castelli Romani

In contatto diretto con il nascente Comitato di Liberazione ed il Comando Centrale militare, insieme riescono a costruire nella zona una diffusa organizzazione di guerriglia che darà filo da torcere alle truppe tedesche.
Le bande erano diffuse sul territorio, tra vigne, casolari ed abitazioni. Le sosteneva una vasta rete di legami da cui traevano il fondamentale per vivere, mangiare, vestirsi, alloggiare, per approntare magazzini di approvvigionamento e depositi di armi e munizioni spesso sottratte agli stessi comandi tedeschi. Dopo una prima fase di assestamento, il Comando militare andò a Giuseppe Levi, detto Pino, un ebreo di Genova legato ai fratelli Rosselli, laureato in giurisprudenza. Aveva passato diversi anni al confino, alcuni mesi anche in Calabria, a Fuscaldo. Allontanati gli elementi più indisciplinati, si studiarono nuove forme organizzative e metodi di azione più adeguati al territorio, denso di coltivazioni ma con pochi boschi e scarse possibilità di movimento e di nascondiglio. Agli italiani si aggiunse un gruppo di russi liberati da un campo di prigionia vicino a Monterotondo.
Si muovevano in gruppi di pochi elementi con obiettivi ed ordini precisi, anche a supporto all’aviazione inglese o americana. Niente più scontri frontali, ma una tattica mordi e fuggi. Fu un crescendo continuo di azioni: dal taglio

delle linee telefoniche e la disposizione sulle strade dei chiodi a quattro punte che tranciavano le gomme degli automezzi tedeschi, ai mitragliamenti ai soldati e alle truppe nemiche e la posa di mine. Fino, con l’esperienza acquisita giorno per giorno, alle grandi azioni di sabotaggio per ostacolare il traffico sulle grandi linee ferroviarie nazionali.

Giuseppe Mannarino e il Ponte delle Sette luci

L’azione più eclatante, sicuramente tra le più importanti della Resistenza, fu compiuta la notte del 20 dicembredue contemporanei attentati alle linee ferroviarie Roma-Formia e Roma-Cassino che servivano da rifornimento e spostamento delle truppe tedesche al fronte.

L’azione veniva preparata da tempo. Erano stati prescelti i punti su cui agire. In particolare il Ponte delle Sette Luci al 25° Km. della linea ferroviaria Roma-Formia-Napoli era sotto stretta sorveglianza. Racconterà anni dopo Spaccatrosi: «Ogni mezz’ora passavano su di esso due pattuglie. Per giorni e giorni, notte e giorno i nostri compagni, Ferruccio Trombetti, sostituito ogni tanto da Giuseppe Mannarino, un calabrese della squadra, avevano studiato nei minimi particolari ciò che avveniva sul ponte. Il tempo in cui si vedevano che spuntavano le due pattuglie, quanto tempo impiegavano a percorrere il ponte, quanti minuti impiegavano per allontanarsi e il tempo preciso in cui ricomparivano le altre due pattuglie».

Il Ponte delle sette luci oggi

Quella notte, sotto una pioggia che non dava tregua, due squadre arrivarono sotto i piloni del ponte Sette Luci. A comporre la prima sono Ferruccio Trombetti e Alfredo Giorgi, l’altra Enzo D’AmicoGiuseppe Mannarino e Pino Levi Cavaglione. Alcuni vanno a sistemare le mine; gli altri li coprono armati di pistole, mitra e bombe.

Felici e sconvolti

Pino-Levi-Cavaglione
Pino Levi Cavaglione

Scrive il giorno dopo Pino Levi Cavaglione: «Pochi minuti dopo mezzanotte, finalmente era tutto finito… Ci portammo ad un centinaio di metri dal ponte, sotto un uliveto in pendio. Ad un tratto uno mi ha scosso. Il treno… Siamo tutti balzati in piedi ansando. Il treno proveniente dal sud avanza con snervante lentezza. Il locomotore è già sul ponte. Sento un vuoto allo stomaco che mi toglie ogni forza. Tutto il treno è sul ponte. Ne è già quasi alla fine… All’improvviso un’alta colonna vermiglia si alza dalla testa del treno e il locomotore si impenna e scompare, mentre lungo tutto il convoglio le fiammate rosse delle esplosioni squarciano l’oscurità. Uno schianto terribile e un fragore prolungato si propagano di collina in collina diffondendosi nell’ampia vallata pianeggiante. Vediamo la striscia nera del treno confondersi, contorcersi come una cosa viva nel corpo giallastro delle fiammate». […] «Ci precipitiamo di corsa giù dalla collina, sguazzando, scivolando nel fango viscido e tenace, felici e sconvolti […]».

Chi c’è dietro?

L’attentato uccise o ferì quattrocento militari tedeschi in avvicendamento dal fronte.
Dopo circa mezz’ora da oltre le colline si sentì un forte boato. L’altra squadra aveva fatto brillare, vicino alla stazione di San Cesareo sulla linea Roma-Cassino, una mina d 32 Kg di esplosivo al passaggio di un treno carico di armi e munizioni.
Le azioni erano riuscite tanto bene che i tedeschi si convinsero che fossero opera di paracadustisti inglesi. Da parte sua il CLN romano, per timore di rappresaglie contro la popolazione locale, ritenne non darne notizia sulla stampa clandestina e di lasciar credere questa versione.

Anzio

Lo sbarco degli Alleati ad Anzio, a pochi chilometri dai Castelli, riaprì l’entusiasmo e le speranze. Le azioni partigiane ripresero con vigore, con attacchi alle autocolonne, mitragliamenti e sabotaggi. Ma gli incomprensibili ritardi dell’avanzata americana diedero ai tedeschi il tempo di organizzarsi e capovolgere la situazione militare. Il feldmaresciallo Kesselring potè far affluire ingenti forze e creare quella testa di ponte tra Cassino ed il mare che durò altri quattro lunghissimi mesi.

L’attività delle squadre partigiane dei Castelli divenne quasi impossibile. Fino alla Liberazione di Roma, la città e i paesi della provincia vissero uno dei periodi più tristi ed eroici della loro storia: un’ondata di rastrellamenti, arresti, torture e fucilazioni di partigiani spesso consegnati ai tedeschi da delatori e collaborazionisti fascisti. Come nel caso di Marco Moscato, caposquadra del gruppo di Pino Levi Cavaglione, preso mentre era a Roma a cercare i genitori. Lo riconobbe Celeste di Porto, “la pantera nera” che lo fece arrestare per denaro da una squadra di fascisti a caccia di ebrei.

Un giorno da leoni di Nanni Loy

All’azione del Ponte delle Sette luci si è ispirato Nanni Loy per il film Un Giorno da leoni, che ebbe come protagonista anche l’attore calabrese Leopoldo Trieste. Presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Venezia del 1961, il film racconta la storia di alcuni giovani comuni che si trovano per caso in zona di guerra e di lotta partigiana. E che di fronte a quanto accadeva trovano il coraggio per fare l’unica cosa possibile: combattere contro i tedeschi ed i fascisti, fino a compiere il loro gesto eroico e vivere il loro giorno da leoni. Perché eroi non ci si nasce ma ci si diventa. E non per sempre.

Giuseppe Mannarino nel dopoguerra

Giuseppe Mannarino nel 1948 fu dichiarato Partigiano combattente dalla Commissione Regionale del Lazio. In seguito si trasferì a Genova, dove erano emigrati altri parenti, mettendo su un negozio di materiali edili. Aderì al Partito comunista. È stato un dirigente della Confederazione Nazionale dell’Artigianato (CNA) ed eletto Consigliere comunale di Genova.

Il documento che attesta l’impegno da partigiano di Giuseppe Mannarino

Non sono riuscito a sapere se Giuseppe Mannarino e Pino Levi Cavaglione – anche lui iscritto al PCI, ma uscito nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria – si siano ancora frequentati e se abbiano potuto riflettere sulla loro esperienza di quei giorni.
Pino Levi, che aggiunse il cognome Cavaglione in onore della madre deportata insieme al padre Aronne ed uccisi al loro arrivo a Birkenau, nella prefazione della nuova edizione del 1970 del suo Guerriglia nei Castelli romani scriverà: «Oggi tutto ciò è avvolto nelle nebbie del passato. Io stesso, che non avevo mai sparato prima e non ho più sparato dopo il 1944 ad alcun essere vivente, io stesso considero il Pino di allora un uomo diverso, e a me ormai del tutto estraneo. La mia speranza ed il mio impegno sono oggi rivolti a far sì che l’odio dell’uomo verso l’uomo scompaia per sempre».

Fonte: https://icalabresi.it/fatti/giuseppe-mannarino-il-partigiano-calabrese-e-quel-giorno-da-leoni/?fbclid=IwAR309RwOXb7eQIcN9hjQPJditEW7cS_a2NiNzz_mKaqriEFi8itTiA1qM90; Roma città aperta

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