4 giugno 1944. L’eccidio de La Storta: memoria, verità e riflessioni sulla Liberazione di Roma

L’eccidio de La Storta, uno degli episodi più tragici e simbolici degli ultimi giorni dell’occupazione nazista di Roma, è ancora oggi un potente memento sulla fragilità della libertà e sui pericoli dell’indifferenza. Nel corso della notte tra il 3 e il 4 giugno 1944, mentre le truppe alleate si avvicinavano alla città eterna, le forze di occupazione tedesche misero in atto una delle loro ultime e più efferate rappresaglie, assassinando quattordici prigionieri politici, partigiani e perseguitati, detenuti nelle celle di via Tasso. Ripercorrere le vicende di quel massacro, avvenuto nel bosco della località La Storta al chilometro 14.200 della via Cassia, equivale a esplorare non solo una dolorosa pagina di storia patria, ma anche riflettere sull’attualità della memoria e sull’importanza della consapevolezza collettiva come baluardo contro la violenza e l’oblio..
L’ultima notte delle speranze tradite
La sera del 3 giugno 1944 Roma era percorsa da un’attesa elettrica. Gli invasori erano ormai prossimi alla ritirata, la città si preparava con trepidazione a una liberazione sognata per nove lunghi mesi di oppressione, fame, sospetti e violenze. Mentre i cittadini speravano nell’arrivo degli alleati, i nazisti organizzavano freneticamente la fuga e le forze di sicurezza tedesche, stanziate nella famigerata prigione di via Tasso, ordinarono il trasferimento di due camion di prigionieri politici verso nord, con la presunta destinazione di Verona. Per molti prigionieri, tra cui membri delle Brigate Matteotti e del Fronte Militare Clandestino, tutto lasciava presagire un trasferimento forzato, ma nessuno sospettava quanto sarebbe accaduto poche ore più tardi.
Una crudele casualità salvò i detenuti del primo camion – su cui viaggiavano, tra gli altri, Iole Mancini e Giuseppe Gracceva – bloccati da un guasto meccanico. Chi venne caricato invece sul secondo mezzo non ebbe la stessa sorte: quattordici uomini, figure cardine della Resistenza e di diversi mondi culturali e politici, andarono incontro al loro destino. Era una lista di nomi che avrebbe attraversato la storia d’Italia, unendo storie individuali profondamente diverse ma accomunate dal coraggio della scelta e dall’amore per la libertà.
Il teatro della tragedia: la tenuta Grazioli e La Storta
La colonna tedesca, guidata da ufficiali delle SS tra cui, secondo alcune testimonianze, Hans Kahrau, avviò una marcia esasperata verso nord, costellata da incerte soste, paura e tensione crescente. All’alba del 4 giugno la sosta definitiva fu nella rimessa della tenuta Grazioli, immersa nei boschi di La Storta. Qui avvenne il massacro: uno dopo l’altro, i quattordici prigionieri vennero costretti a scendere e assassinati con un colpo alla nuca. Secondo alcune versioni, il gesto fu eseguito materialmente dallo stesso Kahrau, ma a oggi rimangono irrisolti i dubbi su chi abbia dato l’ordine effettivo – se l’istigazione arrivasse direttamente dai vertici della Wermacht locale, dal tristemente noto Erich Priebke, oppure dallo stato maggiore tedesco in fuga da Roma.
I corpi furono ricoperti alla meglio dai tedeschi, nel tentativo di cancellare le tracce del crimine. Fu solo qualche giorno dopo, grazie al coraggio dei contadini locali e all’arrivo delle forze alleate, che le salme furono ritrovate e identificate, mentre la città appena liberata veniva pervasa da una commozione profonda, diventando consapevole del prezzo altissimo pagato per la ritrovata libertà.
Chi erano le vittime.
La drammaticità dell’eccidio è amplificata dalle storie individuali di chi perse la vita. Tra i caduti spicca Bruno Buozzi, sindacalista torinese di fama internazionale, fondatore della FIOM e leader socialista, già deputato ma soprattutto simbolo dell’unità operaia a difesa della libertà e dei diritti dei lavoratori. Con lui cadde Alfeo Brandimarte, maggiore della Regia Marina e decorato medaglia d’oro al valor militare, impegnato come molti altri nell’organizzazione di reti clandestine contro l’occupazione.
Gabor Adler, cittadino ungherese ebreo, agente dei servizi segreti britannici, fu a lungo una figura misteriosa per la storia di quegli anni: operava sotto copertura con i nomi di “John Armstrong” e “Gabriele Bianchi”, unendo l’intelligence occidentale agli sforzi della Resistenza italiana, e rendeva evidente la dimensione internazionale della lotta contro il nazismo.
Furono uccisi anche Eugenio Arrighi, tenente del Fronte militare clandestino, Frejdrik Borian, ingegnere polacco e combattente delle Brigate Matteotti, e altri uomini provenienti da strati sociali differenti: dal tipografo al medico, dall’ingegnere al commerciante. La differenza di origini e di sentieri biografici rende ancor più bruciante la consapevolezza che la violenza nazista colpì indiscriminatamente tutti coloro che si posero come ostacolo al terrore.
A distanza di decenni, scorrere i loro nomi significa onorare non soltanto la memoria delle singole persone, ma una rete di relazioni e di valori senza i quali la Resistenza sarebbe stata impossibile. Erano uomini di convinzioni forti, alcuni già noti come simboli nazionali, altri oscuri alle cronache, ma tutti ugualmente determinati nell’impegno contro l’arbitrio e la sopraffazione.
Le motivazioni del massacro: tra rabbia, calcolo e strategia
Le ragioni del massacro de La Storta sono oggetto di un intenso dibattito storiografico. Per alcuni studiosi fu l’effetto di un impeto di furia distruttiva, un atto di pura vendetta contro il popolo romano alla vigilia della sconfitta, un modo per lasciare un segno indelebile e sanguinoso proprio mentre la libertà stava tornando in città. Altri ritengono che sia stato una scelta “pragmatica”: liberarsi dei prigionieri che, durante la fuga precipitosa, rischiavano di rallentare la colonna o di diventare oggetto di attenzione da parte delle forze alleate.
Secondo ulteriori ipotesi, l’ordine omicida fu impartito dall’alto, come misura definitiva di soppressione di figure ritenute pericolose non solo come individui, ma come simboli stessi del riscatto popolare e della lotta al regime nazifascista. La testimonianza di alcuni contadini, che parlarono di un messaggero motociclista giunto all’alba, avvalora la tesi secondo cui la decisione possa essere maturata in corso d’opera, forse per ordine d’emergenza giunto da Roma. Paolo Monelli, nel suo libro “Roma 1943”, suggerì che la vera ragione dell’esecuzione fosse il desiderio di liberare i camion per caricare beni e bottino di guerra, un’ulteriore dimostrazione della barbarie e dell’avidità che caratterizzarono la ritirata tedesca.
Qualunque siano state le cause specifiche, rimane evidente la matrice di disumanizzazione della violenza nazista e la sistematica volontà di cancellare, oltre le vite, anche le speranze di riscatto e le voci della coscienza civile italiana.
La città in lutto e il valore della memoria
I funerali delle vittime, celebrati l’11 giugno presso la Chiesa del Gesù, videro una partecipazione popolare imponente. Roma, appena liberata ma ancora tramortita dall’esperienza dell’occupazione, trovò in quelle cerimonie un momento di intenso raccoglimento comunitario e di rinnovato patto civile. La scelta delle istituzioni, unite alle organizzazioni dei lavoratori e ai movimenti popolari, fu quella di farne non solo un’occasione di cordoglio, ma anche l’inizio della costruzione di una memoria pubblica condivisa.
Nell’Italia della ricostruzione, il ricordo dell’eccidio de La Storta è stato a lungo in parte oscurato dai tanti drammi e dalle emergenze del dopoguerra, prima di essere lentamente riscoperto nella sua interezza. I processi ai responsabili – tra cui Erich Priebke, condannato a decenni di distanza per vari crimini – permisero di ricostruire dettagli e responsabilità, anche se restarono zone d’ombra e reticenze istituzionali, segnalando quanto difficile sia sempre il percorso della verità e della giustizia dopo una tragedia collettiva.
Una memoria difficile, tra storia e futuro
Oggi, a 81 anni di distanza, l’eccidio viene ricordato regolarmente con cerimonie pubbliche, alzabandiera, momenti di riflessione nelle scuole, marce commemorative nei luoghi della strage. Il monumento nell’area di La Storta, insieme alle lapidi sparse per Roma, sono tappe di un percorso di memoria che coinvolge istituzioni, associazioni partigiane e semplici cittadini. Questi atti civici si configurano come riti collettivi di riaffermazione dei valori democratici, un antidoto spontaneo contro la minaccia del revisionismo e della cancellazione storica.
C’è però ancora molto da fare, soprattutto sul piano della divulgazione con le nuove generazioni. Mentre testimoni diretti dell’epoca si fanno sempre più rari, diventa fondamentale il ruolo delle scuole, dei musei e dei documentari nell’alimentare una consapevolezza critica e rispettosa delle differenze. L’eccidio de La Storta può e deve essere insegnato non solo come evento italiano, ma anche come parte integrante di un contesto europeo e mondiale, in cui la lotta per la libertà passa anche attraverso episodi di straordinario dolore.
Il confronto con altri eccidi e la costruzione della coscienza civile
La strage de La Storta si inserisce dentro la lunga lista delle atrocità compiute dai nazisti in Italia tra il 1943 e il 1945: dalle Fosse Ardeatine a Marzabotto, da Sant’Anna di Stazzema ad altri centri martirizzati del Centro-Nord. Ogni episodio ha una dimensione specifica, ma tutti concorrono a tracciare una mappa della brutalità che ha segnato il Paese, evidenziando come la costruzione della democrazia repubblicana sia passata anche attraverso la rielaborazione collettiva del trauma e della perdita.
Il paragone tra La Storta e le Fosse Ardeatine è, in certo senso, emblematico: mentre a via Ardeatina la rappresaglia fu una risposta (illegale e non prevedibile) a un’azione partigiana, a La Storta si consumò una strage gratuita, simbolica, orientata a inferire un colpo mortale alle fila della Resistenza proprio nella vigilia della libertà. Questo dettaglio conferisce all’eccidio una valenza specifica di monito: la violenza cieca può abbattersi anche quando la pace sembra vicina, e la vigilanza della coscienza democratica non deve mai venire meno.
Segni nella città e la memoria nella vita quotidiana
Roma conserva oggi nella sua toponomastica e nel tessuto urbano molte tracce della Resistenza e delle sue vittime: vie a loro intitolate, targhe commemorative all’interno di quartieri popolari, scuole e centri culturali dedicati. La stessa via Tasso, trasformata oggi in Museo storico della Liberazione, costituisce un ponte tangibile tra passato e presente: nelle sue celle e nei suoi oggetti quotidiani si avverte l’eco delle voci di chi lottò e soffrì per la libertà.
La memoria de La Storta è il racconto di scelte, di responsabilità e di possibilità future. Nelle opere degli storici, nei romanzi, nei film come in tanti documentari, la strage viene oggi raccontata e problematizzata in modo nuovo, con particolare attenzione alla ricostruzione dei percorsi individuali, alla valorizzazione delle donne della Resistenza e all’importanza della conoscenza storica come atto di cittadinanza attiva.
Riflessioni sulla memoria pubblica e privata
Negli ultimi anni si è sviluppata una riflessione intensa su come la memoria dell’eccidio de La Storta – e, più in generale, dei crimini nazifascisti – venga interiorizzata a livello personale e collettivo. Se per le famiglie delle vittime il dolore resta sempre vivo, la memoria pubblica rischia spesso di essere ritualizzata o meccanica, svuotata del suo potenziale critico. È compito, allora, delle istituzioni culturali e della società civile promuovere forme di coinvolgimento attivo, occasioni di ascolto reciproco e di confronto intergenerazionale, anche includendo voci nuove, punti di vista inediti e una pluralità di linguaggi.
Dal sacrificio delle vittime emerge un discorso che non riguarda solo l’esaltazione della Resistenza, ma anche il modo in cui una comunità accetta di rileggere il proprio passato, di riconoscere anche le zone d’ombra, le complicità e i tradimenti che resero possibile l’orrore. Il ricordo, insomma, è al contempo celebrazione e domanda di verità.
L’importanza di insegnare la storia: memoria e antifascismo oggi
Alla luce dell’attuale scenario politico e sociale, attraversato da crescenti tensioni e pericolosi processi di banalizzazione del male, l’eccidio de La Storta rappresenta un banco di prova per l’educazione alla cittadinanza e alla responsabilità. Insegnare questi fatti nelle scuole significa proporre esempi concreti di coraggio civile, favorire un approccio critico alla storia, contrastare il rischio dell’oblio o della mistificazione delle colpe del passato.
Non si tratta solo di commemorare, ma di trarre lezioni operative sul presente: distinguere tra memoria viva e memoria “celebrativa”, domandarsi quanto effettivamente sia attuale il messaggio delle vittime, confrontarsi con le nuove forme di odio e negazionismo che periodicamente riaffiorano nel dibattito pubblico italiano ed europeo.
Conclusioni: l’eredità di La Storta tra storia e impegno
La vicenda dell’eccidio de La Storta consegna alla coscienza collettiva italiana una responsabilità impegnativa: non accontentarsi della pietà verso le vittime, ma operare perché la memoria si traduca in azione, cultura e vigilanza democratica. La ricerca storica continua a produrre nuove conoscenze, a colmare silenzi e lacune, a restituire dignità ai protagonisti spesso oscurati o dimenticati.
Nel paesaggio della Roma contemporanea, La Storta è non solo un luogo fisico, ma soprattutto uno spazio simbolico di riflessione sul valore dei diritti, sulle radici della democrazia e sulla necessità di tramandare alle generazioni future il peso e la speranza di una scelta: non voltarsi mai dall’altra parte di fronte al male.
Ricordare l’eccidio de La Storta è dunque un gesto che travalica la pura commemorazione, è impegno per la verità, per la giustizia e per la costruzione di una società più libera, giusta e attenta alla dignità di ogni essere umano. Nei nomi di quei quattordici, oggi come allora, si riflette il volto di un’Italia migliore, capace di imparare dal proprio passato e di guardare al futuro con coscienza, responsabilità e spirito critico.
Irene Salvatori