Ugo Forno: un eroe bambino. 5 giugno 1944

Quando si ripensa alla storia di Ugo Forno, sorprende quanto la forza d’animo e la consapevolezza civile possano abitare in un cuore giovane. Il suo nome, ormai inciso nella memoria collettiva, è una delle immagini più luminose e struggenti della Resistenza romana. Non si tratta soltanto del più giovane partigiano caduto nella Città Eterna — era un bambino, appena dodicenne — ma del simbolo di quell’umanità che nelle tragedie del Novecento sapeva ancora inventarsi il coraggio, sorprendente e commovente nella sua purezza.
Nato a Roma il 27 aprile 1932 in un quartiere borghese, Ugo Forno cresce nell’atmosfera difficile degli anni della guerra. Via Nemorense, la sua casa, si affaccia su un quartiere apparentemente tranquillo, dove però l’eco delle sirene antiaeree e il sibilo sporadico delle bombe erano diventati parte della quotidianità. Il padre Mario, impiegato delle ferrovie, veniva spesso richiamato al fronte o costretto a trasferte di lavoro; la madre, premurosa ma stanca, cercava di mantenere intatta una parvenza di normalità. Nei mesi dell’occupazione tedesca, privazioni, paura e un senso di ingiustizia permeavano la vita di tutti.
Chi era Ugo, prima di diventare un “eroe”? Era uno scolaro della scuola media Settembrini, in via Sebenico: le mattinate tra i banchi lo vedevano curioso, spesso vagamente assorto nei pensieri. Aveva una passione per la geografia, coltivava amicizie sincere e sognava, a volte, un futuro lontano dal rumore delle bombe. La guerra, però, era un muro che sbarrava ogni proiezione nel futuro. Si adattava, come tanti ragazzi di allora, a una realtà che chiedeva troppo presto di crescere: camminava per le vie di Roma con le scarpe spesso troppo strette, il quaderno sotto braccio e il bisogno irrefrenabile di sognare tempi migliori.
Nonostante tutto, Ugo non perse il sorriso né il senso del gioco. Tra una partita improvvisata nel cortile e qualche scherzo coi coetanei, capiva che la Storia stava chiedendo una scelta anche a lui. La situazione in città era drammatica: i rastrellamenti si facevano più frequenti, la fame era una costante, e le voci sulle deportazioni scuotevano il quartiere. Proprio in quel contesto, la Resistenza romana diventò, per molti ragazzi come Ugo, un’invocazione irresistibile.
Il giorno che segnò il suo destino fu il 5 giugno 1944. La notte precedente, Roma aveva ascoltato il rombo lontano di cannoni e mitraglie: gli Alleati si stavano avvicinando e nel cuore degli abitanti della capitale si fece strada una gioia trattenuta, ancora timorosi di credere che il peggio fosse davvero passato. All’alba, in una città ancora deserta, Ugo scese presto di casa, attratto dalla promessa di libertà. In Piazza Verbano, incrociò alcuni soldati alleati appena arrivati: i loro veicoli – con le stelle bianche dipinte sul cofano – risvegliarono in lui un’emozione incontenibile. Corse a casa per raccontare, ma c’era un’altra urgenza nell’aria.
Presto si diffuse la voce che gruppi di guastatori tedeschi avevano ricevuto l’ordine di distruggere tutti i ponti e le infrastrutture strategiche prima di abbandonare la città. Per Roma, ancora stremata dai bombardamenti e isolata dai collegamenti ferroviari, significava il rischio di restare a lungo paralizzata, rendendo più difficile il ritorno alla vita normale. Tra questi ponti, il viadotto ferroviario sull’Aniene, che collega la linea Roma-Firenze, rappresentava un nodo vitale per gli approvvigionamenti e il futuro della città.
È qui che Ugo, giovanissimo e con risorse che nessun adulto avrebbe sospettato in lui, decise di agire. Non ci fu un momento solenne, nessuna discussione retorica tra gli amici: si trattava di seguire quel senso innato di giustizia e appartenenza. Radunò alcuni coetanei e giovani agricoltori della zona — tra cui i fratelli Antonio e Francesco Guidi, Luciano Curzi, Vittorio Seboni e Sandro Fornari. Con una naturalezza impressionante si procurò un vecchio fucile e poche munizioni, raccogliendo l’entusiasmo acceso di chi aveva aspettato troppo a lungo di poter cambiare qualcosa.
L’avvicinamento al ponte fu un viaggio tra la paura e l’adrenalina. Attraversarono campi e sterrati, si nascosero dietro alberi e cespugli, sentendo l’eco dei passi pesanti e delle urla gutturali dei tedeschi intenti a piazzare gli esplosivi sotto le arcate. Nessuno poteva sapere veramente quale sarebbe stato l’esito: giunsero in sei su una piccola altura, da cui si vedevano le uniformi degli invasori, gli zaini carichi di dinamite, i detonatori già in posizione.
Nessuno di loro aveva mai partecipato a un vero combattimento, eppure, quando il momento arrivò, non esitarono. Ugo fu il primo ad aprire il fuoco, trascinando il gruppo nell’azione. I tedeschi, colti di sorpresa, risposero con scariche di mitragliatrice e, nel tentativo di fuggire, lanciarono tre colpi di mortaio. Fu questione di istanti: il primo colpì Francesco Guidi, che perse la vita quasi all’istante; il secondo ferì gravemente Luciano Curzi (che rimase mutilato) e Sandro Fornari; il terzo colpì Ugo Forno al petto e alla testa, mettendo fine alla sua giovane esistenza. Quando sul ponte calò il silenzio, la missione che si erano prefissati era riuscita: la struttura era salva, e con essa una speranza per la città libera che stava finalmente nascendo.
L’immagine di Ugo, esanime tra i binari della ferrovia, fu uno dei primi segnali tangibili di cos’era costata la libertà a Roma. Il suo corpo fu avvolto in una bandiera e portato, insieme ai feriti, alla clinica di via Monte delle Gioie. Tutti, dal più anziano dei partigiani agli amici di scuola che piansero disperati alla notizia, riconobbero che nel sacrificio di quel bambino si condensava un messaggio di amore e responsabilità verso la collettività. La notizia della sua morte si diffuse presto per la città, attraversando i quartieri come un’ondata di sgomento ma anche di orgoglio: la Resistenza aveva un nuovo piccolo grande martire.
Il ricordo di Ugo Forno non rimase circoscritto alla sua famiglia o al quartiere. La scuola Settembrini lo commemorò con una targa, i cittadini raccolsero testimonianze, e per anni raccontarono ai più giovani la storia di quel pomeriggio. I compagni superstiti parlarono spesso del carisma semplice ma travolgente che Ugo sapeva trasmettere, della sua capacità di agire senza tentennamenti là dove persino gli adulti avrebbero esitato.
Sono le generazioni successive, però, a dare alla memoria di Ugo Forno un valore universale. Nel 2010, dopo decenni di richieste popolari, il ponte sull’Aniene fu intitolato ufficialmente a suo nome dalla Rete Ferroviaria Italiana. Sulla pietra che accompagna i binari, oggi si legge chiara la motivazione della Medaglia d’Oro al Merito Civile, conferita nel 2013 dal Presidente della Repubblica — il massimo riconoscimento per chi si sia prodigato fino al sacrificio estremo in favore della collettività. Quella motivazione racchiude, nella sua solennità, la commozione e l’orgoglio di un Paese intero: «Giovane studente romano… con grande spirito di iniziativa, si mobilitava, unitamente ad altri giovani, e con le armi impediva ai soldati tedeschi di portare a compimento la loro azione. Durante lo scontro a fuoco veniva, tuttavia, colpito perdendo tragicamente la vita. Fulgido esempio di amor patrio ed encomiabile coraggio».
Cosa ci racconta davvero la storia di Ugo Forno, dopo oltre ottant’anni? Non è solo il racconto di un’azione militare o di un atto di eroismo: è la conferma che la Resistenza non fu solo questione di adulti dagli ideali forgiati nelle lotte politiche, ma anche — e soprattutto — di giovani, donne, adolescenti e bambini capaci di una responsabilità fuori dal comune. Figure come Ugo Forno, Davide Danti o Bruno Fanciullacci ci mostrano il volto più fragile eppure più determinato della nostra storia, quello che la retorica spesso dimentica: la capacità di rischiare tutto per ciò in cui si crede.
In un’Italia martoriata dall’occupazione, giovani come Ugo erano cresciuti ascoltando racconti di giustizia, libertà e solidarietà nelle cucine gelide, nei cortili polverosi, nei circoli clandestini animati da studenti, professori, operai. La loro resistenza era fatta di piccole cose: distribuire volantini, trasportare armi nascoste, sorvegliare le strade e segnalare movimenti sospetti. Ma era anche un’affermazione potente, soprattutto nei momenti in cui diventava necessario mettersi direttamente in gioco, fino all’estremo sacrificio.
Proviamo a soffermarci su una domanda: cosa avrebbe pensato Ugo Forno se avesse saputo che il suo nome sarebbe stato inciso su lapidi, ponti e libri di storia? Forse sarebbe arrossito, o avrebbe sorriso timidamente. Di certo avrebbe detto che, semplicemente, non poteva fare altrimenti. Il coraggio che lo animava era quello spontaneo e diretto di chi ha visto troppa morte e ingiustizia, e non vuole più voltar pagina senza provarci.
Oggi i suoi insegnamenti vivono non solo nelle commemorazioni ufficiali, ma anche nei progetti scolastici, nelle iniziative civiche e nella consapevolezza diffusa che la libertà è un bene fragile e prezioso, da difendere giorno per giorno. Attraverso la testimonianza di Ugo, la Resistenza torna a essere un’esperienza viva e concreta, che interroga la coscienza di tutti.
Il quartiere di via Nemorense ha custodito a lungo la memoria “privata” del piccolo partigiano, tramandandola di generazione in generazione: dalle nonne che indicarono ai nipoti la lapide bianca sulla scuola, agli insegnanti che ogni 25 aprile ne raccontano la storia tra emozione e lacrime. Non sono mai mancati, però, i momenti di riflessione più ampi: eventi pubblici, mostre, incontri con gli ultimi testimoni sopravvissuti alla guerra. Ogni volta si rinnova l’attualità delle domande poste dal sacrificio di Ugo Forno – quanto siamo disposti a fare per difendere ciò che conta?
Non mancano nemmeno le polemiche e le difficoltà. A volte, nei decenni, è stato necessario combattere perché il ricordo non venisse banalizzato o marginalizzato rispetto ad altre storie più “conosciute”. Le giovani generazioni spesso si trovano a interrogarci sul senso del sacrificio, sulla percezione della Resistenza come qualcosa di lontano e celebrativo. Eppure, una narrazione autentica, fondata sui fatti e sulle emozioni, mantiene intatta la sua forza educativa.
Ugo Forno è stato non solo un eroe di guerra, ma anche un modello di “eroe della pace”. Il suo gesto nasceva da un sogno semplicissimo: quello di un mondo libero nel quale poter crescere senza paura. Questa sua visione, così infantile eppure grande, è il vero lascito alle generazioni che seguiranno. Nel suo nome, insieme a quello di tanti altri “piccoli grandi” della Resistenza, si custodisce una morale altissima: il bene comune vale il sacrificio anche di una vita intera, piccola o grande che sia.
Quando, negli anni Duemila, la scuola Settembrini e il quartiere hanno promosso lavori per riaffermare la memoria di Ugo Forno nella comunità – dall’intitolazione del ponte alla pubblicazione di raccolte di testimonianze –, si è rinnovato quel legame fra storia e attualità che rende la memoria di Ugo qualcosa di vivo, non solo da ricordare ma soprattutto da imitare. Il suo modello continua a essere esempio attivo per la nuova cittadinanza, che trova nel piccolo eroe romano la motivazione per agire quando la storia torna a farsi difficile.
Siamo arrivati all’epilogo della storia. Ogni volta che attraversiamo Ponte Ugo Forno, avvolto dal frastuono dei treni e dal rumore della città che scorre sotto, cerchiamo di ricordare che là, su quelle arcate, il sogno di un bambino ha salvato, almeno per un giorno, una città intera. E il suo nome, inciso nella pietra e nella memoria, invita a una scelta quotidiana: quella di non arrendersi mai, né di fronte all’ingiustizia né all’indifferenza. La vera, profonda eredità di Ugo Forno è forse quella di aver riacceso la speranza in una generazione che aveva quasi dimenticato come si fa a credere. “Un giorno saremo liberi”: le sue ultime parole, ricordate dai compagni, restano la più limpida promessa della Resistenza, e un faro acceso per tutte le generazioni future.
Irene Salvatori