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I ricordi di Americo di Fabio. Testimonianze

Testimonianze che non devono andare perse.
Americo di Fabio ricorda la sua esperienza di giovane tredicenne che collaborava nella stampa del giornale clandestino “Libertà” con il ciclostile donato dal vescovo Facchini ad un gruppo di ragazzi dell’Azione Cattolica.
Lo storico “ciclostile piano”, portatile, di un modello risalente ai primi del secolo scorso o, forse, ancor prima, era stato introdotto nella mia casa di Vicolo Vezzacchi da mio cugino Pietrino Di Fabio, allora ancora seminarista, nell’autunno del 1943. Lo portò una sera, sotto il suo mantello nero, e lo sistemò, nascosto in un sacco di juta, nel sottoscala buio dove la mia famiglia ricoverava anche legna e carbone. Gli era stato affidato dal rettore del Seminario. Qualche giorno dopo, sempre Pietrino portò anche una vecchia e pesante macchina da scrivere Remington. E mi chiese di collaborare, con quella macchina, a “battere articoli” sul cliché da applicare al ciclostile.
Di lì a pochi giorni sarebbe uscito un nuovo numero del giornale clandestino “Libertà”.
Erano giorni di scelte drammatiche, seguiti alla firma dell’armistizio, richiesto dal Governo Badoglio agli alleati anglo – americani.
L’armistizio era stato comunicato, per radio, la sera dell’8 settembre, alle sette e quarantacinque circa. Io ricordo che stavo aspettando, in piazza, che i miei genitori uscissero dalla chiesa di Santa Maria Maggiore per andare a cena: avevano partecipato alla solenne funzione religiosa in onore della Madonna della Libera e mi ero accorto che questa era terminata dal momento che era stato spalancato il portone principale della chiesa. Stranamente, però, la gente non usciva. Incuriosito entrai in chiesa e udii un vociare dei fedeli che si attardavano a commentare, senza spostarsi dai banchi, la notizia portata da qualcuno che l’aveva sentita alla radio poco prima. Parlavano di armistizio, di guerra finita, di pace, contenti e stupiti. E invocavano e ringraziavano la Madonna. Una signora anziana arrivò a dire di aver visto la Madonna muovere gli occhi. Era evidentemente suggestionata perché ricordo che ci vedesse pure poco. Si asciugava con un fazzoletto le lacrime che le cadevano sotto gli occhiali. Alla fine il parroco invitò tutti ad uscire perché doveva chiudere la chiesa.
Purtroppo l’armistizio generò solo vane speranze di pace nella popolazione e provocò lo sbandamento dell’esercito italiano e l’occupazione del territorio nazionale da parte dei tedeschi. E tanti italiani, allora, decisero di resistere ai nazifascisti e combatterli con ogni mezzo.
Anche un gruppo di giovani cattolici di Alatri preferì la lotta clandestina all’arruolamento nella Repubblica di Salò.
Tra questi, oltre a mio cugino seminarista, anche Carlo Costantini, futuro sindaco della città.
Una delle prime attività di lotta che i giovani partigiani cristiani di Alatri ritennero necessario svolgere fu proprio quella della pubblicazione e divulgazione di un giornale clandestino che spiegasse le ragioni della resistenza e incitasse la popolazione a battersi per la libertà e la democrazia: la scelta del nome della testata (“Libertà”) e i contenuti degli articoli furono chiari e netti sin da subito.
Una sera d’inverno, nei primi mesi del 1944, ricordo che stavamo finendo di stampare, al primo piano di casa, un numero di “Libertà”. Erano circa le dieci e tutta la mia famiglia si era attardata a conversare nella stanza del piano terreno che si trovava addentrata rispetto all’ingresso della casa, sul vicolo.
Io e Pietrino avevamo ricoperto il letto matrimoniale, un tavolo e le sedie con una cinquantina di copie del giornale, in attesa che si asciugassero. Una breve spiegazione della tecnica di stampa è, forse, opportuna per comprendere meglio la situazione di quella sera: sul cliché (una matrice di carta cerata) veniva battuto il testo con la macchina da scrivere, privata del nastro d’inchiostro; poi il cliché veniva applicato ad un telaio con retina ed abbassato sulla risma di fogli posti alla base dello strumento; quindi sulla retina veniva passato un rullo cilindrico intriso di inchiostro vischioso; poiché i “caratteri” battuti avevano eliminato la cera, l’inchiostro penetrava attraverso il cliché e riproduceva il testo sul foglio bianco. Poi si prelevava il foglio fresco d’inchiostro e lo si sistemava su una vicina superficie libera e, quindi, si poteva procedere nuovamente con la stampa di un altro foglio, ripetendo le operazioni. Occorreva più di un’ora per stampare una cinquantina di copie. I fogli non potevano essere sovrapposti, almeno per un quarto d’ora, appunto il tempo di asciugarsi. Pietrino manovrava il ciclostile ed il rullo mentre io prelevavo i fogli, uno ad uno, e li distribuivo sulle suppellettili della camera da letto.
E così, con una stanza completamente cosparsa di fogli di “Libertà”, sentimmo bussare alla porta di casa.
Aprendo con cautela la finestra perché non facesse rumore, sporsi la tesa fuori dal davanzale e vidi un soldato tedesco, senza che questi mi vedesse: indossava un cappotto pesante ed aveva poggiato il suo grande zaino sul sedile di pietra che si trovava accanto alla porta.
Ricordo ancora il panico che provammo con mio cugino mentre gli altri familiari, ignari del pericolo, erano rimasti a conversare attorno al braciere, al piano di sotto. La prima decisione che, d’istinto, prendemmo fu quella di non rispondere subito e, intanto, cacciare sotto il letto il ciclostile e raccogliere in fretta tutti i fogli sparsi.
Pochi secondi dopo, però, il tedesco batté nuovamente le mani contro la porta.
Allora insieme decidemmo che scendessi io, il più piccolo d’età, a chiedere a quel soldato cosa volesse. Aperta la porta, il tedesco mi fece capire che voleva dormire. Chissà, forse la lunga inferriata che protegge tuttora il finestrone che, dal vicolo, porta un po’ di luce allo stanzone allora adibito a cucina e soggiorno, dava la sensazione che ci si trovasse di fronte ad una locanda.
Fortunatamente ebbi la prontezza di rispondere che in casa non c’era un posto per dormire ma che lo avrei accompagnato ad un albergo, se mi avesse seguito. Era mia intenzione condurlo fino all’Albergo Centrale che si trovava presso il Monumento ai Caduti. E così salimmo in Piazza e imboccammo Via Cesare Battisti. Al termine della quale, in prossimità dell’attuale Girone, mi venne un’altra idea in mente: il percorso per l’albergo era ancora troppo lungo per me, tredicenne e solo, a quell’ora della notte…. ma mi si presentava un’altra occasione. C’era ancora, sulla facciata dell’ultimo edificio a sinistra, l’indicazione di “Casa del Fascio”, scritta con lettere cubitali in legno. Pur sapendo che era stata abbandonata da tempo e, quindi, confortato dalla certezza che non vi fosse nessuno a cui stavo scaricando la “patata bollente”, mi rivolsi al tedesco dicendogli: “Qui dormire”; bussai e lo salutai, assicurandolo che qualcuno gli avrebbe aperto.
A gambe levate tornai a casa dove mio cugino aveva avuto tutto il tempo per occultare ciclostile e copie di “Libertà” nel solito sottoscala. Sprangammo la porta e ci mettemmo a dormire.
Molte volte ho ripensato a quella sera ed anche alla mia incoscienza adolescenziale. Il soldato sarebbe potuto tornare indietro, non avendo trovato né letto né tetto. Ma non lo fece. Forse era un povero diavolo anche lui, allontanato dal fronte vicino per qualche motivo serio (di malattia o familiare) ed accompagnato e lasciato ad Alatri dai suoi commilitoni: lo zaino pieno, oggi, mi fa ritenere che stava cambiando destinazione o tornando a casa.
Fonte: Roma città aperta, https://www.facebook.com/groups/romacittaaperta/permalink/7984143024992070
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