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Per la storia sociale e la sociologia rurale: fonti archivistiche particolari. Antonio Parisella

Potrei liquidare questo intervento con poche battute dicendo che la sociologia rurale e la storia sociale non hanno fonti archivistiche esclusive, differenti da quelle delle altre discipline, e limitandomi a questa considerazione.

Invece non posso farlo perché due discipline canonizzate anche in declaratorie accademiche, evidentemente, hanno da dire qualcosa di specifico su quelle stesse fonti delle quali altri – anche in questo convengo – si occupano ad abundantiam[1]. Quando Corrado Barberis, dal 1968-69, venne ad insegnarci sociologia nella Facoltà romana di Scienze politiche e nel suo corso ci tenne a presentarci la sua disciplina come la risultante degli apporti di discipline differenti (economia, storia, geografia, statistica, demografia, ecc.)[2], e quando, ambiziosamente, ci convocò il 22 aprile 1999 negli «Stati generali della ruralità italiana», ci fece confrontare fra studiosi di diverse discipline fra i quali – in fondo – il sociologo rurale in senso stretto era unicamente lui[3]. Del resto, tra i maestri che hanno contribuito, forse più degli altri, a definire in Italia la ruralità e il suo studio, ritroviamo nomi come quelli di Mario Bandini, Giuseppe Medici, Aldo Pagani, Manlio Rossi-Doria ed Emilio Sereni e, prima di essi, ad esempio, Luigi Einaudi, Ghino Valenti, Arrigo Serpieri, studiosi che ritroveremo negli alberi genealogici di diverse discipline degli studi rurali, ma tutti – in maniera costitutiva – con forte caratterizzazione storica. Quel carattere storico che Mario Bandini – in un suo manualetto metodologico – definiva costitutivo dell’economia agraria: quasi con le stesse considerazioni lo potremmo definire costitutivo anche della sociologia rurale[4].

Quando, per farne il logo dell’INSOR, si trattò di scegliere un’immagine rappresentativa che simboleggiasse la ruralità, Corrado Barberis fece stilizzare da un suo amico il ritratto che Hayez aveva fatto ad Alessandro Manzoni nel 1841 e che del Manzoni era diventato l’icona. Fin da quando – era il 1969 – Barberis aveva realizzato il suo pionieristico studio sugli operai-contadini, aveva scelto Renzo Tramaglino, che si divideva fra il suo poderetto e il lavoro in filanda, come prototipo storico del part-time dei nostri tempi[5]. E sarebbero passati circa vent’anni perché gli storici – non solo italiani – iniziassero a guardare in modo innovativo alla rivoluzione industriale, attribuendo al part-time un ruolo decisivo. Ma poi, a consacrare Manzoni come fondatore-padre della sociologia rurale, vi fu nel 1984-85 un convegno commemorativo promosso dall’INSOR nel quale il nome di Manzoni – imprenditore agricolo, oltre che studioso e scrittore – era legato a quello di Stefano Jacini[6].

Lì per lì mi sorse per questo qualche riserva, mi sembrava che vi fosse stata qualche forzatura, ma – e invito tutti voi a fare la stessa cosa – andai a rileggermi per l’ennesima volta l’introduzione manzoniana a I promessi sposi – sì, quella che inizia con «L’historia si può veramente diffinire» – e vi trovai gli elementi fondamentali per la storia sociale, anche nella prospettiva che Eric J. Hobsbawn ha chiamato «storia dal basso»[7]. E Manzoni stesso ci dà esemplari dimostrazioni nella ricostruzione dal basso d’insieme di grandi eventi, come la carestia e la peste, intrecciando fonti documentarie che in un romanzo non può citare, con rappresentazioni di vita contadina (osterie, forni, sacrestie, poderi, filande, deschi domestici, ecc.) che probabilmente non erano quelle del tempo di Renzo e Lucia, ma quelli del suo tempo. Ed era molto probabile che – per la conoscenza di usi agricoli e rurali del suo tempo – Manzoni avesse pratica della letteratura popolare, non esclusi lunari e almanacchi, che hanno seguito la vita delle campagne anche attraverso le grandi trasformazioni rurali-urbane e agricolo-industriali contemporanee. Essi oggi trovano una nuova primavera nei numerosi movimenti neoruralisti: in effetti, ad esempio, per un tema particolarmente caro a Corrado Barberis, se si volessero seguire regole per la cucina rigorose ed adeguate alla tradizione ed archeologia alimentare, bisognerebbe che ci si preoccupasse non solo di seguire ricette filologicamente corrette, ma di impiegare materie prime prodotte secondo gli usi agricoli tradizionali, proprio come quelli trasmessi da lunari ed almanacchi.

Anche per noi vale la considerazione che le fonti non sono definite una volta per tutte, ma variano in relazione agli oggetti di ricerca. Nel secondo capitolo delle sue Lezioni di metodo storico, Federico Chabod descrive la rivoluzione avvenuta tra le fonti storiche nel XVI e XVII secolo[8]. Con i cinquecentisti la storiografia avrebbe allora dilatato i suoi interessi, «ampliato il significato di fonte storica» e allargato il ricorso a nuove fonti. Ciò non fu solo conseguenza di una visione «terrena» e non solo teologica della storia, ma anche di un passaggio da una storia che aveva avuto come protagonisti condottieri, santi, papi, re, imperatori e altre teste coronate, alla storia delle istituzioni e a quella della società civile che la sottintendeva. È significativo che proprio Jean Bodin, giurista al quale si debbono i fondamentali Six livres de la Republique, chiedesse agli storici di occuparsi di «agricultura et pecuaria, quibus respublicae maxime iuvantur, de mercatura et de re nautica»9. Con ciò indicando che nella società d’ancien régime, che era inequivocabilmente rurale, non si dovesse distogliere l’attenzione dai commerci e dai traffici marittimi, che avrebbero – del resto – fondato il nascente capitalismo. Ed indicando anche – per conseguenza – di andare a ficcare il naso nella produzione documentaria non solo delle istituzioni chiamate a governare stati e città, ma anche delle corporazioni, banche e famiglie di agricoltori e di allevatori.

D’altro canto, Marc Bloch ci aveva ammonito che la storia del conflitto sociale nelle campagne non si conosceva solo attraverso i documenti e le cronache delle ribellioni, a volte estesissime nei territori e nei tempi, come la guerra dei contadini del tempo di Lutero o le rivoluzioni dei peones messicani o, in Italia, quelle delle regioni meridionali e nel Lazio nei due dopoguerra del XX secolo. Il conflitto sociale nelle campagne, ricorda Bloch, è un conflitto che per lunghi periodi sembrava scomparire, mentre in realtà si era trasferito – per «lotte sorde e pazienti»10 – nelle aule dei tribunali e, quindi, anche nel XIX e nel XX secolo, i verbali dei processi e le sentenze – particolarmente nella parte narrativa – hanno un grande rilievo documentario. In particolare, come lo stesso Bloch aveva notato, è dalle fonti giudiziarie che talora emerge come soggetto collettivo la comunità rurale «silenziosa» che altrove non ha spesso lasciato traccia di sé perché non aveva archivi11.

Sono quindi importanti gli archivi giudiziari penali e civili per tutte le questioni controverse sulle proprietà e sui contratti agrari e gli archivi di quelle magistrature speciali e specializzate che sono i commissariati – a competenza regionale – per gli usi civici. Essi sono nati e agiscono sulla base di una legge del 1927, ma le questioni risalgono, come minimo, alle leggi di fine XIX secolo e con una ricerca a ritroso talora potremmo giungere all’età medievale. Siccome titolari dei diritti non sono i singoli ma l’intera popolazione di un comune o di una frazione o un particolare gruppo sociale (i proprietari di buoi aratori, i pescatori di una laguna, ecc.), le cause finiscono per descrivere la storia dell’intera società rurale locale o la vita di gruppi sociali più o meno consistenti lungo decenni e talora secoli. E va segnalato l’interesse particolare – nelle cause – che rivestono le prove testimoniali dei contadini, dei pastori o pescatori, talora rese in dialetto12. E va anche segnalato che fino agli anni Venti o Trenta del XX secolo questa attività di magistrati, avvocati e periti aveva alimentato alcune riviste che oltre che al diritto positivo, erano aperte e sensibili a quello che veniva definito «folklore giuridico», cioè agli aspetti socioculturali della vita – soprattutto – delle società rurali.

Una fonte straordinaria, a tale proposito, sarebbe stato l’archivio – che mi auguro esista ancora da qualche parte – dello studio legale di Guido Cervati, forse il più grande esperto italiano della materia del suo tempo e dei nostri tempi13. Era un maestro non solo del diritto, ma anche della storia sociale e delle analisi della ruralità. Le sue memorie processuali erano la base per vere e proprie monografie storiche delle comunità delle quali curava e sosteneva interessi e diritti.

Nell’estate del 2010 il Congresso (cioè il Parlamento) del Perù ha confermato che – come già previsto dalla Costituzione fin dal 1920 – sono imprescrittibili i diritti delle comunità contadine del paese sulle terre che avevano in possesso, abitavano e coltivavano fin dal periodo coloniale. Erano le stesse terre sulle quali le popolazioni non solo rivendicavano i diritti, ma – attraverso conflitti che si ripetevano e si ripetono – da decenni hanno difeso la loro integrità ostacolando, con la lotta sociale e politica e le liti giudiziarie, gli interessi soprattutto minerari e l’attacco di politici ad essi legati. Oggi tali terre possono essere alienate solo con il consenso della maggioranza dei cittadini originari cui appartengono.

Delle lotte estesissime degli anni Sessanta era stato testimone privilegiato Eric J. Hobsbawm[9]. Al grande storico inglese era parsa palese l’analogia fra quelle lotte e quelle cui aveva assistito in Calabria nel 1949 (e forse negli anni precedenti). Analoghe le modalità, con partecipazione di massa di intere popolazioni ed estese occupazioni di terre. Ma analoghe erano state anche le rivendicazioni, cioè risarcimento e restituzione di terre che erano state oggetto di usurpazione. A noi l’analogia delle due situazioni può sembrare meno strana di ciò che appare, solo che riflettiamo che in entrambi i casi vigeva da secoli la medesima legislazione aragonese, che regolava i rapporti fra popolazioni e proprietari di terre.

In Calabria, in special modo, si trovavano la gran parte dei territori meridionali sui quali pendevano da secoli liti tra comuni e baroni[10]. In particolare, poi, erano insorti cause e conflitti a seguito dell’eversione della feudalità del 2 agosto 1806. Per affrontarli, con decreto dell’11 novembre 1807 era stata istituita la Commissione feudale (con tre soli giudici)[11]. Nel 1808-09, in diciotto mesi, essa pronunziò ben tremila sentenze: alienò, di fatto, la feudalità e permise il formarsi di nuove proprietà borghesi, estromettendo i contadini che su parte di quelle terre godevano diritti e le coltivavano. Ma in altri casi la Commissione feudale si fermò di fronte alle rivendicazioni riconoscendo alle popolazioni il diritto – esclusivo o condominiale – di mantenerne il possesso e di esercitarvi i diritti di semina e pascolo.

Di tutte quelle storie noi oggi possiamo avere solo limitata conoscenza perché i nazisti, nella criminale distruzione con il fuoco dell’Archivio di Stato Napoli, distrussero gli atti di ben 5.295 procedimenti, dei quali si conserva l’inventario e altra documentazione. Perciò, ora, su tutta quella vasta materia, sono diventate preziose le carte di altri uffici ed enti pubblici che hanno trattato anche essi le questioni, oppure di comuni che avevano promosso liti giudiziarie, o di famiglie proprietarie o di studi professionali di avvocati che le avevano trattate che non siano state disperse.

E vorrei ricordare, a proposito di fonti giuridiche e giudiziarie, la sottolineatura più volte fatta proprio da Guido Cervati. Egli non era (ma solo apparentemente) un teorico del diritto, ma un operatore concreto del rapporto tra norme e realtà sociali. Quando uscì il bellissimo libro di Giorgio Giorgetti, Contadini e proprietari in età moderna, egli – in qualche modo – stemperò i nostri entusiasmi suscitati dall’intelligenza e dalla cultura che avevano permesso all’autore di dominare con risultati innovativi una materia tanto vasta17. Osservava, infatti, Guido Cervati che mettere l’attenzione su statuti comunali e contratti agrari con occhio da ricercatore[12] di storia economica e sociale era indubbiamente un grande passo avanti, ma che non bastava: era necessario penetrare nella realtà quotidiana della disapplicazione delle norme o nella conflittualità che la loro applicazione finiva per generare, che veniva descritta in atti di citazione in giudizio, memorie di comparsa processuale, testimonianze e sentenze18. Erano queste fonti giudiziarie che permettevano di passare dalla narrazione del conflitto alla narrazione della vita dei contadini e degli altri soggetti rurali e delle dinamiche della società rurale nel suo complesso.

Alla storia contemporanea delle campagne in Italia, soprattutto dopo il 1947, si era tradizionalmente guardato con gli occhi della storia politica[13]. Del resto, in un paese che aveva ancora una quota molto alta della popolazione sia rurale sia agricola («rurale è chi abita in campagna agricolo chi lavora la terra», scrive Corrado Barberis agli inizi del suo trattato di Sociologia Rurale)[14] i rapporti accesi e contrastati fra democratici cristiani e comunisti sull’organizzazione dei lavoratori avevano avuto proprio sull’organizzazione dei contadini autonoma dalla Cgil un elemento di conflitto, dal quale era nata la Coldiretti.

Verso la fine degli anni Settanta questa tendenza ebbe il culmine in convegni come Togliatti e il Mezzogiorno, promosso a Bari, oppure nel secondo congresso di storia del movimento contadino promosso a Salerno-Vietri sul Mare dall’Istituto Alcide Cervi sulla politica agraria dei governi di unità nazionale del 1943-47. Ancor più rappresentativi della tendenza furono i due grossi volumi sulle campagne del Mezzogiorno pubblicati dall’editore De Donato e che presentavano – ad opera di studiosi di primo piano – sia studi tematici, sia monografie territoriali[15].

A fronte di questo stato di cose, che aveva come corollario il proliferare di una serie numerosa di studi locali, talora tesi di laurea, e di memorie di protagonisti per i quali qualcuno usò l’espressione sarcastica di «libri fotocopia», un gruppo di studiosi (Ester Fano, Nicola Gallerano, Anna Rossi-Doria, ai quali mi associai anche io e con i quali collaborava anche Guido Crainz) pensò di lanciare un sasso nello stagno. Da ciò ebbe origine il seminario «Mezzogiorno e contadini: trent’anni di studi», svoltosi a Roma il 4-5 aprile 1981, promosso dall’IRSIFAR con la collaborazione dell’Istituto Alcide Cervi[16].

Oltre che alla storiografia, fu prestata attenzione alla sociologia, all’economia e all’antropologia culturale. Il problema posto con forza all’ordine del giorno fu quello di studiare preliminarmente la società rurale con i diversi strumenti propri di quelle discipline, superando steccati politici e pregiudizi ideologici. Enrico Pugliese (con Giovanni Mottura mentore nel settore della sinistra più radicale) infranse con forza il tabù rappresentato da Arrigo Serpieri, dalle sue opere e dai suoi metodi di ricerca (ad essi, peraltro, erano tributari anche i nostri maestri quali Mario Bandini, Giuseppe Medici, Manlio Rossi-Doria, Emilio Sereni, per citare i più noti). Fu, di fatto, un forte momento di rilancio della analisi empirica come base di ogni interpretazione e Corrado Barberis vi assunse una centralità per la grande ricerca dell’INSOR sulla riforma fondiaria e il seminario internazionale che ne era derivato23. Pasquale Villani, esponente di primo piano degli storici vicini al Pci e autore di rilevanti studi sull’agricoltura e ruralità, che presiedeva il seminario, elogiò il lavoro dell’INSOR e in un’antologia sulla politica agraria pubblicò cogliendone l’esemplarità le dieci tesi INSOR sulla riforma agraria italiana24.

Nel corso del seminario vennero anche citate due opere recenti che avrebbero potuto indicare una svolta metodologica e problematica: da un lato, quella di Pino Arlacchi, Mafia, contadini e latifondo, e dall’altro quella di Piero Bevilacqua sulle lotte contadine in Calabria, inquadrate nelle condizioni della società e delle culture locali25.

Cominciò anche a porsi il problema della scomposizione territoriale e sociale della società meridionale in ambiti che al suo interno presentavano e presentano caratteri realmente omogenei, l’esigenza di commisurare ai caratteri di ciascun ambito (latifondistico-bracciantile, contadino-familiare, ecc.) quei fenomeni sociali – lotte contadine, emigrazione, penetrazione mafiosa – indicati per solito come caratteristici della intera società meridionale.

Alla stessa fase, anche se di qualche tempo precedente, appartiene una importante iniziativa della rivista «Quaderni storici», che dedicò un fascicolo alle istituzioni agrarie26. Con esso si mise l’attenzione sul loro ruolo economico-sociale e sulla loro sociabilità, con particolare riferimento soprattutto alla nascente borghesia agraria e ai ceti medio-bassi dell’Italia settentrionale. Comizi agrari, cattedre ambulanti di agricoltura, casse rurali, ma anche crediti agrari, consorzi agrari, consorzi di bonifica, mutue di assicurazioni, senza dimenticare le società di incoraggiamento, le cantine sperimentali e gli altri organismi di settore ai quali si doveva la promozione dell’innovazione tecnico-produttiva nelle campagne settentrionali e centrali.

La storia generale dell’ultimo scorcio del XIX secolo e della prima metà del XX testimonia come l’evoluzione sociale e le dinamiche istituzionali possono avere conseguenze a volte devastanti sulla corretta conservazione degli archivi. Nate da libera iniziativa di formazioni sociali degli agricoltori, istituzioni benemerite, quali i comizi agrari e le cattedre ambulanti di agricoltura vissero a cavallo tra privato e pubblico, soprattutto avendo come interlocutori soprattutto le Province. Ma oggi sarebbe illusorio trovare negli archivi delle Province (anche quando, e non sempre è avvenuto, ben conservati e ordinati) la presenza sistematica e organizzata di esse.

Per comprenderlo, dovremmo partire dal destino istituzionale di tali enti. I comizi agrari, infatti, nel 1926 furono fusi con la Camera di commercio ed altri consigli e comitati economici provinciali nei Consigli provinciali dell’economia corporativa. I loro archivi, nella migliore delle ipotesi, confluirono nelle sezioni e negli uffici che, al loro interno, si occupavano di agricoltura e agricoltori.

Le Cattedre ambulanti di agricoltura, invece – dove meglio, dove peggio –, sopravvissero fino al 1935, quando le loro funzioni vennero assunte da nuovi organi periferici – Ispettorati agrari – del Ministero dell’Agricoltura. Essi sopravvissero fino al 1970, quando passarono alle Regioni. Anche i loro archivi, per lo più, finirono dispersi negli archivi di nuovi organi.

Ma per entrambi – comizi e cattedre – il danno più grave venne forse dalla Seconda Guerra Mondiale. Essi furono forse spesso inviati alla distruzione per economizzare e riciclare carte per la pubblica amministrazione. Va ricordato che entrambe le istituzioni agrarie – in determinati luoghi e circostanze – si trovarono ad esercitare praeter legem compiti non propri ma di grande rilievo: i comizi agrari, in assenza di associazioni economiche fra agricoltori (le «agrarie»), talora assunsero di fatto funzioni di rappresentanza di interessi; le cattedre – o meglio, i loro titolari – in particolari casi di conflitti sociali furono invitate dalle prefetture non solo a fornire consulenze tecnico-economiche, ma anche funzioni di mediazione sociale.

Ma quello della scomparsa di interi archivi relativi all’agricoltura e alla società rurale è una situazione che si è ripetuta in molti casi. A suo tempo, Alberto Caracciolo segnalò che erano scomparsi presso il Ministero dell’Agricoltura le carte e i verbali della commissione nazionale che doveva sovrintendere all’applicazione del «decreto Visocchi» sull’assegnazione delle terre incolte[17].

E a me – agli inizi degli anni Settanta del XX secolo, che erano gli inizi della mia attività di ricerca – è accaduto di aver trovato all’Archivio di Stato di Roma, sul grosso e voluminoso registro dell’archivio della Prefettura fino alla grande guerra, pagine e pagine dedicate alle Università agrarie dei 228 comuni dell’allora provincia di Roma: però, ogni pagina riportava un frego obliquo con inchiostro rosso. Le carte relative agli enti che gestivano le terre comuni erano state sottoposte a scarto radicale. Esse non andavano conservate per la storia, come – ad esempio – le carte relative agli spostamenti dei membri della famiglia reale.

Non è sempre facile convincere ricercatori economici e sociali dell’importanza che rivestono la conservazione e la corretta archiviazione dei materiali di ricerca. Per i ricercatori di storia (di ogni storia, anche delle arti, della letteratura, delle scienze, ecc.) l’indicazione precisa delle fonti di archivio è un principio deontologico fondamentale, indicatore della serietà scientifica del lavoro, perché può permettere il riscontro agli altri studiosi la condizione – sempre rivendicata e tanto invisa a regimi totalitari e autoritari – dell’apertura degli archivi e della libertà di accesso alla documentazione sotto garanzia statale è la strada per realizzarlo.

Un geografo, Carlo Della Valle, era stato autore di uno studio sulle bonifiche di Maccarese (Roma) e Alberese (Grosseto). Quando Alfredo Martini fece uno studio sulle migrazioni relative alla prima[18], chiese informazioni sulle sue carte a Maria Antonietta Belasio, sua assistente che aveva preso la cattedra del maestro nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma (oggi Sapienza). Ella gli confermò che Della Valle aveva redatto delle accurate schede familiari, ma che esse dopo di lui erano andate disperse dopo lo sgombero delle carte del suo studio all’Università.

Allo stesso modo, con Mariella Eboli volevamo conoscere la vicenda economica e sociale delle famiglie degli assegnatari della Riforma agraria del Lazio. Non essendo allora disponibile per la consultazione presso l’ARSIAL l’archivio dell’Ente Maremma, Mariella Eboli chiese a Corrado Barberis se esistevano conservate presso l’INSOR le schede di rilevazione degli assegnatari della grande ricerca edita nel 1979 ed egli rispose che non c’era stata ragione per farlo. Poi ci aveva riflettuto sopra e, forse, il sociologo rurale nostro maestro aveva cambiato idea e, ad un convegno sugli archivi, aveva suggerito qualcosa di analogo: ma ormai la frittata era fatta[19].

Una differente situazione si è presentata per quanto riguarda i coloni dell’Agro Pontino. All’Archivio di Stato di Latina furono versate le carte dell’Ispettorato Agro Pontino dell’ONL, che aveva avuto sede a Littoria e poi a Latina e che aveva gestito l’organizzazione aziendale basata sul rapporto mezzadrile con gli oltre 3500 coloni assegnatari di poderi[20]. Per ogni podere esisteva ed esiste un fascicolo poderale e una scheda poderale che contengono tutti i dati e documenti che permettono la storia di ognuna delle 3500 famiglie che vi furono coinvolte: anzi, di più, perché vi furono anche assegnatari che rinunciarono alla concessione e altri che furono rinviati ai luoghi d’origine per motivi diversi. Inoltre – per l’aspetto produttivo – esistono due registri degli anni Cinquanta e Sessanta nei quali, podere per podere, venivano annotati e descritti i risultati economici nei poderi. A completare il quadro, per un aspetto specifico ma molto significativo, nello stesso Archivio di Stato, ci sono le carte relative alla liquidazione dei danni di guerra: l’Agro Pontino, va ricordato, vide in una sua parte la distruzione delle opere di bonifica e il ritorno dell’allagamento dei terreni, conobbe dappertutto campi minati, fu colpito dai bombardamenti dal cielo e da cannoneggiamenti dal mare e fu attraversato in lungo e in largo da reparti anche corazzati sia tedeschi, sia delle forze alleate.

Questo complesso di documentazione conobbe tra i primi fruitori alcuni studenti che si laurearono in Scienze Politiche all’Università La Sapienza (Oscar Gaspari, Guglielmo Bove, Gabriella Pozzato, Daniele Visentin), le cui tesi – studiando con metodo uniforme singoli borghi e gruppi di poderi posti in zone diverse del territorio – contribuirono a fare luce su una situazione che presentava condizioni niente affatto facili, quali invece le decantava la propaganda del regime, alla quale attingeva e attinge ancora largamente una pubblicistica locale con ambizioni di storiografia[21].

A testimonianza del valore che archivi di istituzioni e di uffici hanno ben aldilà dei loro principali compiti e funzioni, c’è invece la grande ricerca sulla struttura demografica e sociale delle famiglie contadine condotta da Corrado Barberis per l’INSOR nel 1978-79. Essa ebbe il valore, in senso stretto, di un vero e proprio censimento contadino e – basandosi sui dati relativi ai circa 8000 comuni italiani – fotografò una situazione nella quale si smentiva un illusorio ritorno dei giovani alla terra, quali lasciavano trasparire inchieste giornalistiche e movimenti di occupazioni di terre da parte di cooperative di giovani disoccupati (alcune delle quali mi risulta, peraltro, che esistano ancora, diventate aziende produttive). Invecchiamento di titolari, abbandono di coadiuvanti, femminizzazione, incidenza del part-time erano alcuni dei caratteri sociologici dell’agricoltura (e conseguente ripercussione sulla ruralità).

Ebbene, una tale ricerca/censimento, estesa e penetrante ad un tempo, fu resa possibile per l’INSOR dalla utilizzazione dei dati raccolti comune per comune dalle casse mutue comunali dei coltivatori diretti istituite nel novembre 1954 e riunite nella Federmutue, i cui archivi credo che – salvo alcune positive eccezioni – non siano sopravvissuti alle trasformazioni determinate dall’istituzione/attuazione del Servizio Sanitario Nazionale e della riforma sanitaria e sciolte nel luglio 1977.

La bonifica e la colonizzazione dell’Agro Pontino hanno costituito il caso più noto, anche se non unico, di migrazione interna (indotta) da campagna a campagna della prima metà del XX secolo. Ma altri ve ne furono anche nel dopoguerra e nell’Italia repubblicana. Alle migrazioni rurali fu dedicato uno studio di Corrado Barberis che costituì l’esordio scientifico dell’INSOR32. Come nella sua metodologia, in esso vennero pubblicati dati complessivi e statistici – riferiti all’Appenino emiliano – che dettero i caratteri demografici, economici e sociali del fenomeno. Contemporaneamente l’INPS affidò a Franco Martinelli, ricercatore sociale di sociologia urbana e rurale di formazione geografica, l’incarico di studiare il fenomeno sull’Appennino ligure ed egli ne parlò in alcuni articoli della rivista dell’INPS. Egli si recò in loco, intervistò e si trattenne con i protagonisti e parlò del loro «destino» e della loro integrazione in maniera partecipe e diretta che evidenziò i lati umani dell’esperienza. Al momento di andare in pensione, Franco Martinelli, con il diario di quelle ricerche, ci ha offerto uno spaccato particolarmente eloquente della situazione dei comuni di arrivo33.

A proposito di migrazioni, il nostro pensiero corre abbastanza automaticamente alla grande emigrazione transoceanica della seconda metà del XIX e inizi del XX secolo. Esiste su di essa una lunga tradizione di studi demografici, sociali e storici, con istituti e centri di ricerca e riviste specializzati e con gli importanti archivi e le pubblicazioni ufficiali della Direzione generale dell’emigrazione del Ministero degli Affari Esteri.

A noi, qui, interessa mettere a fuoco le fonti che riguardavano soprattutto gli emigranti, le loro famiglie e il loro retroterra sociale. A tal fine, a parte gli archivi dei comuni e delle parrocchie di origine degli emigrati, per l’emigrazione negli USA è fondamentale l’archivio degli uffici del servizio immigrazione di Ellis Island, l’isola nella baia di New York che costituiva per tutti il primo approdo. È stata effettuata una notevole opera di digitalizzazione dei registri di navigazione e realizzato un database che permette ricerche (anche online) con accessi sulla base del nome della nave, della data di sbarco, del cognome, del luogo d’origine e – mi pare – anche del mestiere della singola persona.

Per far luce sul viaggio transoceanico degli emigrati italiani Augusta Molinari ha pubblicato un ottimo volume nel quale, con rigore e passione, ha ricostruito le settimane del viaggio (della disperazione, ma anche della speranza) verso il nuovo mondo34. Ciò le è stato possibile grazie ai libri di navigazione: non solo quelli amministrativi di comandanti e commissari di bordo, ma anche i diari di medici e cappellani. Condizioni materiali, dinamiche sociali, espressioni culturali e religiose, specificità territoriali: ne esce una sorta di profilo-tipo dell’emigrante e della sua famiglia prima dell’inizio della grande avventura.

Alcuni anni fa mi capitò, ad un concorso per ricercatore, di esaminare una candidata che stava ancora lavorando ad una tesi di dottorato su alcune famiglie di emigrati da una provincia campana a New York, dove nella terza generazione erano diventati imprenditori. Le chiesi se aveva studiato nell’archivio della parrocchia di Nostra Signora di Pompei, vero punto di riferimento per tutta la comunità italiana nella metropoli35. Ne fu sorpresa e disse di non capirne il perché. Io fui sorpreso ancora di più di lei: mi pareva impossibile che in un’Università meridionale – che, per di più, lo aveva avuto come magnifico rettore – si fosse perduto il fondamentale insegnamento che un grande maestro come Gabriele De Rosa – confortato da notevoli sviluppi di ricerca in Veneto, Basilicata, Campania e altrove – aveva lasciato sul rilievo degli archivi parrocchiali per la storia sociale e religiosa.

Ma c’è un altro aspetto nel quale entrano sulla scena emigranti italiani transoceanici. Se facessimo una ideale geografia religiosa delle comunità e dei movimenti evangelici pentecostali italiani alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale (e anche dopo, in certa misura) osserveremmo una loro concentrazione soprattutto in una fascia delle province rurali centromeridionali, da Teramo a Chieti al Molise, al Lazio meridionale, alla Campania interna, alla Basilicata, al Foggiano. Si tratta, in molti casi, di una diffusione legata al ritorno nei loro comuni rurali degli emigrati, che avevano abbracciato il nuovo credo negli USA, dove quei movimenti religiosi costituivano quasi la religione dei poveri e dei marginali. La loro vita non fu affatto facile perché in Italia subirono una vera e propria persecuzione, non solo negli anni del fascismo, ma ancora per circa venti anni dopo l’avvento della Repubblica democratica, fino a quando i primi governi di centrosinistra a partecipazione socialista non promossero la disapplicazione e cancellazione delle norme persecutorie.

In tempi recenti, in numerose località del Mezzogiorno, soprattutto in occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Italia unita, è ripresa l’antica polemica – non solo antisabauda – legata al brigantaggio e alla sua repressione che fece emergere i problemi profondi della società rurale delle province meridionali. Di convegni, manifestazioni, siti web, mostre permanenti, lapidi, monumenti, musei si è parlato a più riprese sulla carta stampata e sull’informazione digitale. In molti casi si è trattato di iniziative ripetitive di polemiche note, magari con estremizzazioni: coinvolto in una di esse a Itri (LT) alla inaugurazione dell’ottimo Museo del brigantaggio36, dovetti duramente ribattere ad affermazioni sulla «rivoluzione del brigantaggio» e sul «progetto politico del brigantaggio».

Se, però, ci informassimo presso l’Archivio Centrale dello Stato, avremmo probabilmente la sorpresa di scoprire che non vi sono stati incrementi particolarmente significativi delle consultazioni per studio degli archivi dei tribunali militari straordinari per la repressione del fenomeno. Ciò nonostante che, per essi, si disponga di inventari e di altri mezzi di corredo che offrirebbero la possibilità di uno studio accurato su di una documentazione molto ricca, che permetterebbe di ricostruire in tutte le direzioni le dinamiche di una società rurale nella quale il brigantaggio era germinato e che essa stessa aveva in parte alimentato. Essa ben si integra con quella conservata negli archivi di Stato delle diverse province, dei quali l’amministrazione archivistica ci ha fornito una meritoria rassegna/guida37.

Suscitò qualche critica e qualche polemica, alcuni anni fa, il fatto che, per ricostruire le cento Italie rurali di fine XIX secolo, Corrado Barberis avesse usato quasi soltanto gli atti della Giunta parlamentare per l’inchiesta agraria presieduta da Stefano Jacini[23]. A qualcuno apparve che non fosse corretto tralasciare gli approfondimenti e gli orientamenti emersi negli studi sull’agricoltura e ruralità del periodo e dalle stesse pubblicazioni sulla inchiesta e sulle monografie in cui si articolava.

In realtà, date le caratteristiche e le finalità del libro, l’uso degli atti poteva non apparire incongruo. Senza negare il valore dei volumi e l’impegno degli autori degli studi integrativi e degli approfondimenti – in genere territoriali o settoriali – si può considerare la mole degli atti dell’inchiesta largamente rappresentativa della ruralità italiana del periodo. Il volume degli indici, molto analitico e puntuale, costituisce non solo una guida alla lettura e allo studio, ma una sorta di dizionario enciclopedico della ruralità.

Nella lezione citata, Chabod si riferiva soprattutto alle fonti narrative, cioè alle cronache e alle storie, che gettarono lo sguardo ben oltre quanto rappresentato da diplomi, bolle, patenti di papi e imperatori. Una vera rivoluzione sarebbe avvenuta con la diffusione della stampa a caratteri mobili. Ma a lungo la situazione – a livello di massa – sarebbe stata quella alla quale fece riferimento Victor Hugo in un passo di Notre Dame. Un monaco-copista osserva la cattedrale e, quasi parlandole, dice che avrebbe avuto ragione di essere ancora per alcuni decenni perché la funzione di comunicare delle sue immagini sulle pareti sarebbe passata alla carta scritta (stampata).

Tuttavia, Emilio Sereni – con tutti i limiti rilevati da Corrado Barberis nelle sue lezioni – con la Storia del paesaggio agrario italiano, avrebbe mostrato il ruolo dell’arte, soprattutto la pittura (ma anche la scultura, non si dimentichi Benedetto Antelami), ben oltre i confini del Medioevo[24].

Uno strumento di rappresentazione della storia dei contadini e della ruralità è costituito – senza dubbio – dalle immagini[25]: nei secoli scorsi soprattutto dalla pittura (ma non dimentichiamo le sculture dei mesi dell’anno di Benedetto Antelami nel Battistero del Duomo di Parma), dai mosaici ravennati a Giotto, a Ambrogio Lorenzetti, a Pieter Bruegel il vecchio, a Hieronymus Bosch, ecc. fino a tanta parte dell’arte moderna e contemporanea. Sono innumerevoli le classiche immagini rurali di singole persone (si pensi al Mangiafagioli di Annibale Carracci o a I mangiatori di patate di Vincent Van Gogh) o di singoli momenti (come L’Angelus – La preghiera della sera di Jean-François Millet) oppure arature, semine, mungiture, raccolte di covoni e fascine e molta parte della pittura del XIX secolo e del primo XX (si pensi a Giovanni Segantini, ai Macchiaioli fino alle perlustrazioni a cavallo dei soldati di Giovanni Fattori, fino ai XXV della Campagna Romana, al poliedrico Duilio Cambellotti, per non parlare dei Naïf). Si tratta, per lo più, di singoli rapporti di uomini e donne rurali con la natura, le coltivazioni, il cibo, gli animali, ecc. Ma io vorrei sottolineare anche una molteplicità di scene collettive: vendemmie, trebbiature, transumanze, mercati, banchetti, feste religiose e processioni, ecc.

Si passa – detto in maniera un po’ grossolana – da pittura con obiettivi pedagogici (si pensi al citato Ambrogio Lorenzetti) ad opere che hanno obiettivi prevalentemente raffigurativi. Come già accennato, come esempio di un uso sistematico della pittura come fonte storica di un’opera scientifica sulle campagne, ci si riferisce alla Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni, che non è l’unica, ma resta la più famosa e in una certa misura la più affascinante, anche se non fu esente da critiche[26]. Emilio Sereni non cita le fonti, ma il suo archivio (conservato presso l’Istituto Alcide Cervi di Gattatico di Reggio Emilia) ha un notevole numero di unità archivistiche uniche di una cospicua documentazione fotografica della quale si è servito.

Io vorrei indicare alcune fonti artistiche particolari. Vi sono opere – soprattutto medievali e rinascimentali – che raffigurano grandi scene di massa: una battaglia, un pellegrinaggio, un corteo di sovrani o di papi, una grande festa patronale, un sontuoso banchetto nuziale, ecc. Ma vale la pena di fissare lo sguardo lontano dall’evento centrale per rintracciare nelle zone periferiche e marginali del dipinto figure secondarie che svolgono attività agricole – dalle semine ai raccolti e oltre –, macellai, fornai, bacchiatori, carrettieri, cacciatori, pescatori fluviali e lacustri, trasportatori di barili e di fieno, venditori di porci e venditrici di polli, di oche e di uova, mugnai, lavandaie, ecc.

Quasi una sintesi campionaria di scene del lavoro dei campi e di molteplici attività della società rurale si trova nelle tavole del Catasto Piano o Pio-Alessandrino relativo alle tenute di Gogna-Santo Appetito, Campomorto, Campo di Carne, Carroccetello, Buon Riposo e altre di proprietà della famiglia Orsini (già dei Colonna)[27]. Era previsto che le denunce delle terre possedute dovessero essere accompagnate da

Tranfaglia N. (a cura di), Il mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca – 2, Questioni di metodo, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 1101-1121.

cartografie realizzate a cura dei proprietari e dei loro agrimensori. In genere, essi usavano semplici immagini ornative per inquadrare titoli e legende. Ma il cartografo/agrimensore Domenico Ferratelli fece molto di più: le diverse mappe della proprietà sono popolate da un numero notevole di figurine in perfetto stile barocco di contadini, pastori, porcai, taglialegna, cacciatori, guardiani e guardiacaccia, butteri e cavallanti, persino un frate cercone, fontanili e abbeveratoi e tutte le possibili funzioni che venivano svolte in relazione alla presenza di seminativi, boschi, frutteti, vigne, pascoli, corsi d’acqua, canneti, cappelle, torri, riserve e stazzi, ecc.

A proposito di documenti visuali, non si possono trascurare tre tipologie di opere dell’arte popolare, rispetto alle quali gli storici ed i sociologi sono necessariamente tributari agli antropologi culturali che, da sempre, li hanno considerati parte integrate del proprio mondo di ricerca.

Intendo riferirmi, in primo luogo, ai riquadri dei tabelloni dei cantastorie, molto spesso con rappresentazioni essenziali, ma talora con qualche dettaglio che la narrazione richiedeva. In secondo luogo, ai riquadri dipinti dei carri agricoli: i più famosi, senza dubbio, sono i carretti siciliani, ma forse in ogni regione o in ogni area culturale ve ne dovrebbero essere, ed anche collezioni ed esposizioni. In terzo luogo, agli ex voto dipinti, di cui ogni santuario con una devozione ancora praticata o coltivata conserva raccolte, talora catalogate ad opera degli assessorati alla cultura oppure selezionate e pubblicate in mostre e rassegne.

Le tavolette dipinte di ex voto sono, forse, quelle che – nella loro successione nel tempo – testimoniano l’evoluzione di aspetti e attività della società rurale. Alcune coppie di strumenti e mezzi raffigurati nelle tavolette seguono intuitivamente il passaggio dalla società tradizionale a quella contemporanea: calesse-automobile, carretto-autocarro, cavallo-motocicletta, diligenza-autocorriera, aratro a trazione animale-trattore, treno a vapore-elettrotreno, barca a remi/vela-barca a motore, trebbia a cavalli-trebbiatrice meccanica, mulino ad acqua/vento-mulino meccanico, ecc.

Le immagini, integrate con una descrizione scritta più o meno dettagliata dell’evento pericoloso o luttuoso evitato per intervento miracoloso, forniscono descrizioni che lo studioso potrà adeguatamente leggere, cioè interpretare oltre la contingenza dell’accaduto.

Per indagare su alcune conseguenze del passaggio della Seconda Guerra Mondiale nei territori e tra le popolazioni delle province del Lazio, il Museo storico della Liberazione, in accordo con l’INSOR, ha promosso una ricerca proprio sugli ex voto di guerra, al fine di indagare sulle culture e sulle dinamiche delle società locali, particolarmente rurali. Da un lato le espressioni tradizionali delle religioni popolari e dall’altro gli interventi delle autorità ecclesiastiche, dello Stato totalitario e delle comunicazioni di massa, con la risultante della formazione contraddittoria di identità collettive. Particolarità della storia e delle culture locali sembrano aver creato con gli eventi tipici di ogni area delle mescolanze nelle sensibilità popolari che sembrano rendere problematica l’individuazione di un unico «senso comune». L’impatto di mentalità tradizionali e di usi sedimentati con la modernità devastante, rappresentata dalle diverse e luttuose conseguenze del passaggio della guerra, ha aperto squarci abbastanza profondi e introdotto terrore e incertezza che ha spinto uomini e donne a rifugiarsi nelle mani di chi si riteneva onnipotente e protettivo/a. E le tavole dipinte e le altre forme devozionali sembrano rappresentare tutto ciò in maniera sintetica. In taluni casi, però, le forme espressive impiegate sembrano costrette a fare i conti con le novità che la trasformazione tecnologica e sociale ha fatto comparire negli orizzonti in precedenza chiusi nelle realtà marginali o paesane.

Non ritroviamo gli ex voto, ovviamente, in archivi vari, ma – in genere – esposti o conservati nei depositi di chiese e santuari, oppure – talora – selezionati ed esposti in musei diocesani o in etnomusei territoriali. Con gli strumenti digitali oggi si rende possibile una campagna di rilevamento generalizzata e articolata nei territori che unifichi informazioni e immagini già raccolte e che completi la catalogazione per offrire una documentazione polifunzionale che fornisca adeguate risposte a sollecitazioni e quesiti di diverse discipline che indagano la società rurale.

Non posso purtroppo affrontare – neppure per cenni – il tema delle immagini in movimento, ma per i rapporti tra cinema e ruralità in Italia siamo fortunati perché disponiamo di un’opera di indiscusso valore di Michele Guerra, un giovane e già autorevole storico del cinema, alla quale nel 2009 assegnammo il Premio Giuseppe Medici per il cinquantenario dell’INSOR[28].

Pochi cenni, invece, possiamo e dobbiamo dare alla fotografia, intesa come fonte storica. Su ciò, il dibattito è d’antica data e si ripete con frequenze variabili. Le problematiche sono più d’una e sembrano avere trovato un superamento più facile nell’etnoantropologia e nella sociologia[29]. Per la storiografia restano, talora, di difficile superamento la critica basata sulla intenzionalità frequente della fotografia di azioni umane e si è complicata quella sulla possibilità di correggere e manipolare le immagini.

Si moltiplicano, frattanto, fondazioni e istituzioni che raccolgono archivi fotografici e la possibilità di orientarci tra essi è spesso difficile, anche perché, in questo caso, i pezzi o gli scatti raggiungono facilmente decine e centinaia e nel complesso milioni. Prima della recente fase della fotografia digitale, si è passati dalla fotografia ottocentesca in lastra a quella novecentesca su pellicola, da fotografia spesso – quasi necessariamente – artistica e in posa, a fotografia prevalentemente istantanea e di cronaca. Possiamo dire con una certa approssimazione che l’affermazione e la crescita etnoantropologica – cioè, sostanzialmente, la conoscenza della società rurale – abbia seguito le vicende della fotografia e dei suoi progressi: anche se non sempre sono indicati con completezza gli archivi che conservano le raccolte e le collezioni.

A titolo sommariamente indicativo – ricordando per l’insieme della loro opera Giuseppe Primoli, Paul Scheuermeier e Sebastião Salgado – possiamo qui ricordare alcune raccolte/pubblicazioni che si riferiscono ad autori che esemplificano situazioni differenti, tipologie fotografiche e problematiche storico-sociali anche piuttosto diversificate tra di loro.

Molto noto è il volume di Fosco Maraini La civiltà contadina, che richiama il dibattito sul rapporto tra culture contadine tradizionali e modernizzazione nel Mezzogiorno dopo l’opera di Carlo Levi e di Ernesto De Martino45. Un significato particolare ha I Paisan, dove la fotografia di Giuseppe Morandi analizza e documenta l’impatto fra la tradizione contadina e lo sviluppo capitalistico in Valle Padana. Né è da tralasciare Muri di carta. Fotografia e paesaggio dopo le avanguardie, rassegna dei più importanti fotografi, dei quali Arturo Carlo Quintavalle ricostruisce anche le biografie mediante interviste, e di alcuni dei quali ha raccolto gli archivi nel Centro studi e archivio della comunicazione (CSAC) dell’Università di Parma. Fra essi, fondamentali per i nostri studi sono i servizi fotografici sulla ruralità degli USA negli anni Trenta del XX secolo di Dorothea Lange, che aveva lavorato presso la Resettlement rural Administration poi diventata Farm Security Administration. Negli altri casi si tratta in prevalenza di lacerti di ruralità che sopravvivono all’interno di – a volte profonde e sconvolgenti – trasformazioni economico-sociali e urbane-metropolitane.

Ma, prima di concludere, in questo ambito abbiamo altre due cose cui accennare. La prima è l’originale lavoro compiuto verso la fine degli anni Settanta o primi anni Ottanta del XX secolo da un serio studioso di storia della fotografia (mi perdonerete se non ricordo se si trattava di Ando Gilardi, Italo Zannier o di altri). Egli provò a guardare con occhi diversi proprio nelle fotografie – molto intenzionali – di ricorrenza di nobili e borghesi rurali veneti tra fine del XIX secolo ed inizi del XX: matrimoni, feste, funerali, banchetti, ricorrenze religiose, ecc… Soltanto che ebbe l’accortezza di spostare l’obiettivo dalla figura centrale allo sfondo, che sottopose molti ospiti inattesi: storpi, deformi, scemi del paese, mendicanti, saltimbanchi, oppure semplicemente lavandaie, zappatori, carrettieri, venditori ambulanti, ecc…

Un soggetto della fotografia storica e sociale molto importante per il suo valore documentario è, senza dubbio, l’abitazione rurale. Nel 1936 alla Triennale di Milano il grande architetto Giuseppe Pagano Pogatsching curò, insieme a Guarniero Daniel, una mostra su «Architettura rurale nel bacino del Mediterraneo», dalla quale trassero un volume-catalogo limitato all’Italia46. Fu Pagano in persona che realizzò direttamente sul posto le fotografie. L’assunto di Pagano era che le architetture rurali/popolari erano un esempio di per sé di razionalismo, essendo frutto di un’organizzazione degli spazi che doveva tenere conto della necessità di provvedere a famiglie in genere numerose in ambiti piuttosto ridotti.

Negli anni tra il 1938 e i primi anni Sessanta, a cura del CNR, vennero pubblicati una ventina di volumi risultato di «Ricerche sulle dimore rurali in Italia», ma anche su tutte le condizioni ambientali e sociali in cui erano inserite. Ad essi si aggiunsero gli atti di un convegno che ne presentò e valutò i risultati. Purtroppo, la qualità delle fotografie non era eccellente e le necessità editoriali ne limitarono dimensioni e spazi: e fu un vero peccato, perché la mole documentaria fu veramente notevole[30]. Pertanto, sarebbe di grandissimo interesse per la storiografia, la geografia e le scienze sociali conoscere e valutare quegli originali fotografici a partire da archivi e istituti che li conservano.

Un’esemplare collezione tematica con un alto valore documentario, sulle opere edilizie e le abitazioni rurali ma anche su tutte le condizioni ambientali e sociali di partenza, è conservata nell’archivio fotografico del Consorzio di bonifica dell’Agro Pontino, che ha unificato i precedenti consorzi storici del territorio. Essa, dopo perdite e distruzioni non secondarie, è stata censita e ordinata grazie ad un recente intervento della Regione Lazio. La parte più rilevante è costituita dai fondi relativi a due tecnici del Consorzio, Carlo Romagnoli e Giovanni Bortolotti, i quali, al di fuori dei loro compiti di servizio, produssero una documentazione unica, raccolta man mano che procedevano i lavori. Sono 2334 lastre del primo e 808 (quel che resta di 1500) del secondo. A tali fotografie hanno fatto ricorso tutti coloro che nel corso del tempo hanno pubblicato opere e lavori sull’argomento. Anche l’efficiente ufficio stampa dell’Opera nazionale combattenti (il cui archivio è nell’Archivio centrale dello Stato), che affiancò l’Istituto LUCE nella campagna informativa e propagandistica di massa che creò un vero e proprio mito dell’impresa pontina. Inoltre, l’archivio fotografico del Consorzio conserva circa 330 fotografie dello studio fotografico Ferdinando Mazzia di Terracina e 106 fotografie del fondo dell’agronomo Edoardo Tosti-Croce[31].

In conclusione, mi sembra di dover ricordare il lascito scientifico principale dei nostri maestri. Che, cioè, i buoni risultati di una ricerca non dipendono tanto dalla quantità delle fonti documentarie delle quali si dispone, quanto dalla qualità – cioè competenza, pertinenza, intelligenza – delle domande, cioè delle ipotesi scientifiche, alle quali chiediamo di aiutarci a rispondere.

NOTE

[1] Per un panorama sugli archivi contemporanei per la storia dell’Italia rurale, la più consistente rassegna è in un convegno i cui atti faranno a pendant con l’iniziativa odierna, inserendosi con essa quasi a incastro come le due metà d’una moneta spezzata: Lepre 2009.

[2] Corrado Barberis affidò agli studenti il compito di produrre le dispense delle sue lezioni. Furono stampate in offset. Una prima edizione fu pubblicata nel 1969 (anno accademico 196869): Dispense del corso di Sociologia, lezioni di Corrado Barberis, a cura e spese degli studenti, anno accademico 1968-69, ristampata negli anni successivi; una nuova edizione, Dispense delle lezioni di Sociologia, anno accademico 1972-73, diversa anche nei contenuti, non più a cura degli studenti, ma di un bidello della Facoltà di Architettura, che produceva in proprio dispense anche per altre Facoltà.

[3] Libro Bianco 2000. I nostri primi 40 anni, INSOR, Roma, 2000. Il sottoscritto, com’è noto ai più, pur essendo da allora vicepresidente dell’INSOR, è propriamente uno studioso di storia, anche se Corrado Barberis, in occasione di un’iniziativa presso l’Istituto Alcide Cervi, ebbe a dire di me: «In fondo, Antonio, nel tuo petto di storico batte un cuore di sociologo». Per alcuni miei orientamenti di base in materia, cf. «Agraria, questione», in Dizionario delle idee politiche, diretto da Enrico Berti e Giorgio Campanini, Editrice AVE, Roma, 1993, ad vocem; «Movimento contadino e riforma fondiaria: orientamenti e problemi della recente storiografia», in Barberis et al. 1979, pp. 379-419; «Giuseppe Micheli, la montagna e la questione agraria», in Vecchio, Truffelli 2002, pp. 205-238; Società rurale e/o movimento contadino? Tendenze e prospettive della ricerca dal Lazio contemporaneo, in Lepre 2009, pp. 269-294 (la bibliografia che segue il testo è sì quella della quale l’avevo io corredato, integrata però a mia insaputa dal curatore) e Società rurali italiane nel cambiamento: le Cinqueterre, il Chianti, il Lazio, a cura di A. Parisella, Annali dell’Istituto Alcide Cervi, 29/2008; Antologia dell’Agro Romano. 1783-1963, 5 voll., direzione e cura di Antonio Parisella (con la collaborazione di Susanna Passigli e Armando Finodi), INSOR e Regione LazioAssessorato all’agricoltura, Roma 2005-2008 (nel V volume: «Quando la storia si fa economia». Agro Romano 1783-1963: discussioni, riflessioni, progetti, realizzazioni, vol. V, pp. 243-267).

[4] Bandini 1967.

[5] Barberis 1970, p. 7.

[6] Barberis et al. 1985.

[7] Hobsbawm 1997, pp. 227-253.

[8] Chabod 1969.

[9] Ivi, p. 32; Cf. Hobsbawm E.J., L’occupazione delle terre da parte dei contadini (1974), in Hobsbawm 2007, pp. 219-248.

[10] Bloch 1952, p. 199.

[11] Ivi, pp. 194-196.

[12] Se ne vedano alcune nelle memorie di Innocenti 2004.

[13] Marchetti R., Parisella A., «Cervati, Guido», in Dizionario storico biografico del Lazio, Roma, IBIMUS, vol. II, pp. 508-509.

[14] Cf. Cinanni 1977.

[15] Cf. Gentile A., Donsi Gentile I. (a cura di), «Archivio di Stato di Napoli», in Guida generale degli archivi di Stato italiani, Ministero per i beni culturali e ambientali- Ufficio centrale per i beni archivistici, vol. 3, Roma, 1986, pp. 1-161; la Commissione feudale è a p. 53. 17 Giorgetti 1974.

[16] Cervati G., Liti giudiziarie e lotte contadine: problemi per una ricerca, in Casmirri, Parisella 1977, pp. 109-119.

[17] Una rassegna della produzione storiografica ho compiuto per conto dell’INSOR in Parisella A., Movimento contadino e riforma fondiaria. Orientamenti e problemi della recente storiografia, in Barberis et al. 1979, pp. 379-419.

[18] Barberis 1965, p. 7.

[19] De Felice 1977; Le campagne italiane e la politica agraria dei governi di unità antifascista (1943-1947), atti del secondo congresso di storia del movimento contadino, Salerno-Vietri sul Mare, 7-9 marzo 1980, in «Annali dell’Istituto Alcide Cervi», n. 3, Bologna, il Mulino, 1981; Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia dal dopoguerra a oggi, 2 voll., Bari, De Donato, 1980.

[20] IRSIFAR 1981.

[21] Oltre alla ricerca e ai due volumi di cui alla n. 16, alla riforma fondiaria del 1950 l’INSOR dedicò anche un grande seminario internazionale (Roma 18 luglio 1979) per discuterla, nel quale presentò «10 tesi sulla Riforma», per gli atti, con lo stesso titolo della ricerca, cf. «Rivista di Economia agraria», n. 4/1979.

[22] Villani, Marrone 1981.

[23] Arlacchi 1980, Bevilacqua 1980.

[24] Caracciolo, Socrate 1977.

[25] Caracciolo 1952

[26] Della Valle 1956, Martini A., Coloni e braccianti veneti nell’Agro Romano. Maccarese negli anni Trenta, in Franzina, Parisella 1986, pp. 131-190.

[27] Barberis C., Alcune osservazioni sull’importanza degli archivi per la storia dell’agricoltura, in Lepre 2009, pp. 309-311.

[28] Ployer Mione L. (a cura di), «Archivio di Stato di Latina», in Guida generale, cit., vol. II, pp. 483-497. Sulla bonifica e colonizzazione pontine, si veda il saggio riassuntivo del 1942 di Vöchting 1990: unica equilibrata non entusiasta valutazione dell’epoca, ad opera di un grande economista agrario, che pure al regime era vicino.

[29] Delle tesi allora discusse fu pubblicata solo quella di Gaspari 1985; analoghe caratteristiche, ma non è una tesi di laurea, ha il volume di Rossetti 1994. Per le altre, nonostante meritassero e talora avessero vinto premi, non ci fu ascolto negli enti locali. Si discostano dal panorama locale, ma solo in parte, i circa dieci volumi – sostenuti dalla Regione Lazio – scritti da Annibale Folchi. Raccoglitore appassionato e diligente di documenti e altre fonti, dotato di buona cultura di base, trovò chi gli fece intendere che fare storiografia significava nella sostanza trascrivere e riportare documenti in sequenza. Non sorretti da adeguata metodologia e da sensibilità per ipotesi interpretative, possono considerarsi onesti e interessanti racconti ma non pienamente contributi storiografici.

[30] Barberis 1960.

[31] Martinelli 2009.

[32] Molinari 1988.

[33] Salvetti 1984.

[34] Padiglione 2006.

[35] De Felice 1998; Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, 2 voll., Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma, 1999.

[36] Barberis 1999.

[37] Sereni 1961.

[38] Al riguardo si tenga comunque presente la problematica generale e le osservazioni critiche presentate da Niccoli O., Le testimonianze figurate, in De Luna G., Ortoleva P., Revelli M.,

[39] Fra le altre, quella di Corrado Barberis nelle citate lezioni universitarie.

[40] Cf. Aleandri Barletta E. (a cura di), «Archivio di Stato di Roma», in Guida generale…, cit., vol. III, pp. 1021-1079 (catasti pp. 1161-1163).

[41] Guerra 2010.

[42] Al riguardo si tenga comunque presente la problematica generale e le osservazioni critiche presentate da P. Ortoleva, La fotografia, ne Il mondo contemporaneo, cit., pp. 1122-1154.

[43] Una riflessione di alto profilo sui problemi scientifici e su tali risultati di ricerca è in Gambi 1976.

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